di Domenico Latino
È difficile descrivere le condizioni del quartiere italiano di New York agli inizi del Novecento. Il mezzo milione di nostri connazionali che decise di stabilirsi in questa città, si ammucchiò nei vecchi edifici in legno dell’East Side, a ridosso del ponte di Brooklyn. Il quartiere ben presto si trasformò in una sorta d’alveare umano dove la miseria, la delinquenza, l’ignoranza e la sporcizia erano gli elementi predominanti. È impossibile dire il fango, il pattume, l’umidità fetente, l’ingombro, il disordine di quella zona. Questa era Little Italy: un agglomerato di gruppi regionali diversi dove ogni giorno si celebrava la festa di qualche santo patrono, dove riecheggiavano grida in tutti i dialetti italiani, ma dove non si udiva quasi mai una parola inglese. Un formicaio in continuo movimento, dove i pedoni dovevano essere sempre pronti a scansare le docce di rifiuti che piovevano dalle finestre, dove oltre cinquemila carretti a mano si aggiravano per le strade vendendo di tutto, dai lacci da scarpe alle mortadelle. L’affollatissimo sobborgo rappresentò quasi subito un grosso problema per la polizia. Centinaia di malviventi, approdati felicemente in America grazie all’allegro sistema della distribuzione dei passaporti instaurato dal governo italiano per liberarsi, oltre che degli affamati, anche delle “pecore nere”, trovarono il terreno adatto per trapiantarvi i propri sistemi mafiosi. Le leggi e le tradizioni liberali americane non fornivano gli strumenti necessari per condurre a compimento una radicale opera di contrasto alla criminalità. Le autorità americane finirono per rassegnarsi all’idea che il ghetto italiano si trasformasse in un bubbone infetto. Ci si limitò soltanto a circondarlo simbolicamente con un cordone sanitario, lasciando liberi i pochi malviventi di taglieggiare la moltitudine dei loro connazionali. Gli emigrati italiani trovarono in America un ambiente generalmente ostile. Spesso furono costretti a subire le prepotenze dei gangster irlandesi sotto lo sguardo sornione dei poliziotti, che erano pure irlandesi. La polizia di New York era infatti composta quasi esclusivamente da irlandesi e da ebrei, gruppi etnici dominanti. Su trentamila agenti, soltanto undici erano in grado di comprendere l’italiano, ossia la lingua parlata da circa un quarto della popolazione della città. Era quindi prevedibile che i nostri emigrati diffidassero di una polizia che neppure comprendeva il loro linguaggio. Sarà questa mancanza di dialogo fra emigrati e poliziotti, a favorire lo sviluppo della mafia. Il detective Giuseppe Petrosino, che era allora l’italiano più famoso di New York, si batté strenuamente per arginare l’afflusso di criminali che minacciava di inquinare in modo irreparabile la colonia italiana che stava sorgendo. Ma i suoi sforzi risultarono vani.
È difficile descrivere le condizioni del quartiere italiano di New York agli inizi del Novecento. Il mezzo milione di nostri connazionali che decise di stabilirsi in questa città, si ammucchiò nei vecchi edifici in legno dell’East Side, a ridosso del ponte di Brooklyn. Il quartiere ben presto si trasformò in una sorta d’alveare umano dove la miseria, la delinquenza, l’ignoranza e la sporcizia erano gli elementi predominanti. È impossibile dire il fango, il pattume, l’umidità fetente, l’ingombro, il disordine di quella zona. Questa era Little Italy: un agglomerato di gruppi regionali diversi dove ogni giorno si celebrava la festa di qualche santo patrono, dove riecheggiavano grida in tutti i dialetti italiani, ma dove non si udiva quasi mai una parola inglese. Un formicaio in continuo movimento, dove i pedoni dovevano essere sempre pronti a scansare le docce di rifiuti che piovevano dalle finestre, dove oltre cinquemila carretti a mano si aggiravano per le strade vendendo di tutto, dai lacci da scarpe alle mortadelle. L’affollatissimo sobborgo rappresentò quasi subito un grosso problema per la polizia. Centinaia di malviventi, approdati felicemente in America grazie all’allegro sistema della distribuzione dei passaporti instaurato dal governo italiano per liberarsi, oltre che degli affamati, anche delle “pecore nere”, trovarono il terreno adatto per trapiantarvi i propri sistemi mafiosi. Le leggi e le tradizioni liberali americane non fornivano gli strumenti necessari per condurre a compimento una radicale opera di contrasto alla criminalità. Le autorità americane finirono per rassegnarsi all’idea che il ghetto italiano si trasformasse in un bubbone infetto. Ci si limitò soltanto a circondarlo simbolicamente con un cordone sanitario, lasciando liberi i pochi malviventi di taglieggiare la moltitudine dei loro connazionali. Gli emigrati italiani trovarono in America un ambiente generalmente ostile. Spesso furono costretti a subire le prepotenze dei gangster irlandesi sotto lo sguardo sornione dei poliziotti, che erano pure irlandesi. La polizia di New York era infatti composta quasi esclusivamente da irlandesi e da ebrei, gruppi etnici dominanti. Su trentamila agenti, soltanto undici erano in grado di comprendere l’italiano, ossia la lingua parlata da circa un quarto della popolazione della città. Era quindi prevedibile che i nostri emigrati diffidassero di una polizia che neppure comprendeva il loro linguaggio. Sarà questa mancanza di dialogo fra emigrati e poliziotti, a favorire lo sviluppo della mafia. Il detective Giuseppe Petrosino, che era allora l’italiano più famoso di New York, si batté strenuamente per arginare l’afflusso di criminali che minacciava di inquinare in modo irreparabile la colonia italiana che stava sorgendo. Ma i suoi sforzi risultarono vani.
Giuseppe Michele Pasquale Petrosino era nato a Padula, in provincia di Salerno, il 30 agosto 1860. Suo padre Prospero faceva il sarto e sua madre si chiamava Maria Giuseppa Arato. Prospero e Maria Giuseppa ebbero altri due figli: Caterina e Vincenzo; poi la madre morì e il vedovo risposò un’altra ragazza di Padula, Maria Mugno, dalla quale ebbe altri tre figli: Antonio, Giuseppina e Michele. Quando il piccolo Giuseppe compì tredici anni, suo padre decise di emigrare in America con tutta la famiglia. Partirono da Napoli nell’estate del 1873, con un bastimento a vela e a vapore, e raggiunsero New York dopo una traversata di venticinque giorni. Considerando l’epoca, la decisione di Prospero di trasferirsi in America può essere giudicata piuttosto eccezionale. L’emigrazione di massa dall’Italia meridionale avrà infatti inizio molti anni dopo. A spingerlo a partire non deve neppure essere stata la nera miseria. Il sarto di Padula non era così povero come la stragrande maggioranza dei suoi compaesani. Il fatto che sia riuscito a mandare i figli maschi alle scuole elementari indica, considerando i tempi, una sia pur modesta agiatezza. Le ragioni che indussero papà Petrosino a emigrare in America non sono dunque del tutto chiare. È probabile che egli abbia voluto seguire l’esempio di un certo Vincenzo Giudice che fu il primo padulese ad approdare in America e anche il primo italiano a indossare l’uniforme della polizia newyorkese. A New York, il tredicenne Giuseppe Petrosino dimostrò subito un certo spirito intraprendente. Col coetaneo Pietro Jorio, aprì un chiosco dove era possibile acquistare giornali e, nello stesso tempo, farsi lucidare le scarpe. Il chiosco venne installato proprio davanti al numero 300 di Mulberry Street, dove aveva sede la centrale di polizia. In quegli anni, quando il termine racket aveva ancora il significato originale di “schiamazzo”, l’Italia era nota in America soprattutto per essere la patria di Giuseppe Garibaldi e gli italiani residenti negli Stati Uniti d’America erano pochissimi e guardati con simpatia. Il giovane Petrosino crebbe dunque in un ambiente ancora immune dai pregiudizi che sarebbero sorti più tardi. Lavorò solo per alcuni anni nel suo piccolo chiosco di giornalaio-lustrascarpe, e dedicò il resto del tempo allo studio dell’inglese, frequentando una scuola serale istituita dal comune per gli emigrati. A sedici anni conosceva molto bene la nuova lingua, anche se non imparò mai a scriverla correttamente. A diciassette otteneva la cittadinanza americana. Il giovane padulese a diciotto anni riuscì a farsi assumere alle dipendenze del comune di New York. L’impiego da lui ottenuto era quello di semplice spazzino ma il giovanotto non restò a lungo con la ramazza in pugno. Infatti, il 19 Ottobre 1883 indossò la divisa di poliziotto. Per alcuni anni, prestò servizio come agente di pattuglia e non si rese mai responsabile della minima mancanza. In ogni occasione sapeva dimostrarsi abile, coraggioso, scaltro e perfetto conoscitore dei regolamenti di polizia. Nel 1890 l’agente italiano aveva già lasciato il monotono servizio di pattuglia per passare all’ufficio investigativo, col compito di occuparsi della malavita italiana. Era allora assessore alla polizia il futuro Presidente degli Stati Uniti Theodore Roosevelt. I due uomini si incontravano spesso, e il poliziotto non perse mai occasione di fare della pubblicità all’uomo politico. In compenso, prima di trasferirsi a Washington per entrare a far parte del governo, Roosevelt nominerà personalmente Petrosino sergeant-detective. Petrosino mostrò molta scaltrezza instaurando subito ottimi rapporti con i rappresentanti della stampa. È noto che quando stava per eseguire qualche arresto importante, era solito avvertire confidenzialmente i reporter più conosciuti affinché potessero assistere di persona all’operazione. Le sue imprese, d’altra parte, avevano lati pittoreschi che ne accrescevano moltissimo l’interesse per la cronaca. Fin dall’inizio della sua carriera, Joe si era specializzato in travestimenti. L’armadio di casa sua era più fornito di un guardaroba di un teatro. Dopo la sua promozione a detective, avvenuta il 20 Luglio 1895, Joe Petrosino fu totalmente liberato dagli incarichi di secondaria importanza e da quel momento gli vennero solamente affidati casi eccezionali. Nel giro di qualche anno il detective diventò famoso a New York e negli Stati vicini. Questo integerrimo italiano, che si batteva coraggiosamente contro i propri connazionali disonesti, incuriosiva gli americani.
14 Aprile 1903, sei del mattino: l’Undicesima Strada Est del quartiere italiano di New York era ancora deserta. Solo dalla vicina Terza Avenue giungevano i primi rumori del traffico. Nella grigia luce dell’alba si scorgeva un grosso barile ritto, presso l’orlo di un marciapiede. Il barile non era vuoto ma alto e panciuto, con le doghe nuove e i cerchi appena arrugginiti, rivelava uno spettacolo sconvolgente: dalla segatura emergeva la testa di un uomo con gli organi genitali ficcati in bocca. Il “caso dell’uomo del barile” risultò subito molto difficile. L’uomo era stato ucciso a coltellate, ma indosso al cadavere non fu trovato alcun documento che permettesse di stabilirne l’identità. Più tardi, un uomo robusto, vestito di scuro con bombetta e bastone, dalla faccia dura e quadrata, leggermente rovinata dal vaiolo, si presentava alla sezione di polizia del Secondo distretto. “Il mio nome è Petrosino” disse, poi si fece accompagnare nell’improvvisato obitorio dove erano stati sistemati i resti dell’ucciso. La sera del 14 Aprile 1903 Giuseppe Petrosino rilasciò una dichiarazione sul caso. “L’uomo del barile - disse - è certamente un italiano e probabilmente un siciliano. Penso che sia stato ucciso per un regolamento di conti all’interno di qualche banda. In Sicilia, a quanto pare, il trattamento dei genitali in bocca è riservato a quelli che parlano troppo”. Alla domanda di un giornalista che gli chiedeva se il delitto potesse essere attribuito alla “Mano Nera”, l’organizzazione criminale che terrorizzava il quartiere italiano, Petrosino rispose seccato: “Ho già detto più volte che la Mano Nera, come organizzazione vera e propria, non esiste. Quelle che realmente esistono sono delle bande, spesso molto piccole e comunque non collegate fra di loro, che sfruttano autonomamente questo nome inventato dagli anarchici per meglio terrorizzare le loro vittime”. Il “delitto del barile” segnò una data importante nella carriera del detective Giuseppe Petrosino. Egli naturalmente non poteva sapere che fra gli individui arrestati c’era quello che, sei anni più tardi, lo avrebbe ucciso in una buia piazza di Palermo: Vito Cascio Ferro. Tuttavia il suo istinto di vecchio poliziotto lo aveva messo in guardia contro questi personaggi, che apparivano assai più scaltri di quelli con cui era abituato a trattare. Evidentemente qualcosa stava cambiando nel mondo della malavita americana. Lo stesso Giuseppe Petrosino aveva finito per rettificare le proprie convinzioni sulla Mano Nera. Fu in quel periodo che il detective venne a conoscenza di un nuovo sistema di ricatto che stava prendendo piede a Little Italy: il racket organizzato e generalizzato, col quale si sottoponevano le vittime a una vera e propria imposta, con scadenze fisse. Questo nuovo sistema ricattatorio era stato introdotto a New York proprio da Vito Cascio Ferro. Agli inizi dell’anno 1905, l’improvviso rifiorire sotto nuove forme della delinquenza italiana indusse il consiglio comunale di New York a togliere il veto al progetto di costituzione di una squadra di agenti composta soltanto da italiani. L’Italian branch, la “squadra italiana”, venne fondata ufficialmente il 20 Gennaio nell’appartamento di due stanze con bagno del detective Petrosino. Ne facevano parte il suo fido collaboratore Maurice Bonoil, un francoirlandese che, essendo nato dell’Est Side, parlava meglio il siciliano dell’inglese, Peter Pondero, Gorge Silva, John Lagomarsini e Ugo Cassìdi. Con l’aiuto di questi uomini, il detective organizzò una vera e propria centrale di spionaggio con decine di informatori sistemati nei punti strategici di Little Italy. Da soli, lavorando senza soste, Petrosino e i suoi uomini compilarono il primo schedario dei malviventi italiani in circolazione nello Stato di new York e l’Italian branch moltiplicò in modo considerevole denunce ed arresti. Nel novembre del 1906 l’Italian branch fu trasformata in Italian legion e Petrosino fu promosso tenente. Nel frattempo aveva assunto la direzione del dipartimento di polizia Theodore Bingham, un uomo molto autoritario, capace ed ambizioso. Egli si propose di costituire a New York un servizio segreto che doveva dipendere da lui solo: lui soltanto avrebbe conosciuto il nome degli uomini chiamati a farne parte; lui soltanto avrebbe preso tutte le decisioni sulle attività da svolgere.
Bingham mise a capo di questo servizio il fedele tenente Petrosino, autorizzando sia lui che i suoi uomini ad agire con ogni mezzo, anche fuori della legalità. Si trattava, in poche parole, di organizzare una squadra di agenti liberi di dare la caccia ai malviventi senza dover sottostare alle complesse regole previste dalla Costituzione americana. Malgrado la decisione del comune di negargli i fondi necessari, egli ottenne un finanziamento da privati cittadini, da enti e organizzazioni, mediante una sottoscrizione segreta. Tutto questo accadeva alla fine del Dicembre del 1908. Ai primi di gennaio dell’anno successivo, Giuseppe Petrosino fu avvertito direttamente da Bingham che doveva prepararsi a compiere un viaggio in Italia. L’impresa che gli era stata affidata non era delle più comode. Secondo le istruzioni di Bingham, egli doveva fingere con le autorità italiane di essere incaricato dal suo governo di svolgere un’inchiesta di carattere generale, mentre in realtà doveva costituire una rete informativa segreta che avrebbe operato in contatto diretto con la polizia americana e all’insaputa di quella italiana. Si trattava, insomma, di un’operazione di spionaggio, che gli italiani non avrebbero sicuramente gradito qualora ne fossero venuti a conoscenza. La sera di venerdì 12 Marzo 1909, Piazza Marina, a Palermo, era buia e deserta. Giuseppe Petrosino, con la sua corpulenta figura ben chiusa nell’ampio soprabito che gli giungeva fin quasi ai piedi, percorse a passo svelto i 250 metri che separavano l’Hotel De France dove alloggiava dal Caffè Oreto. L’interno del locale era affollato di persone che sostavano in piedi davanti al banco. La sala del ristorante, invece, era quasi vuota e il detective andò a sedersi ad un tavolo d’angolo con le spalle rivolte verso la parete. Da lì poteva dominare l’intero ambiente. Ordinò subito la cena: pasta al pomodoro, pesce arrosto, patate fritte, formaggio col pepe, frutta e mezzo litro di vino. Mangiò con molto appetito. Era al formaggio quando due uomini entrarono nel locale e si guardarono intorno come se cercassero qualcuno. Un cameriere li vide avvicinarsi al poliziotto, essi parlarono con lui restando in piedi e fu un colloquio brevissimo. Poi Petrosino li licenziò con un gesto della mano che poteva significare: “Vi raggiungo subito”
Vito Cascio Ferro, l’uomo che trapiantò nel Nuovo Mondo la struttura della mafia siciliana, si era liberato del suo acerrimo nemico, che non riuscì a impedire che il seme da lui portato in terra americana germogliasse rigogliosamente.
Estate 1943. Crollato il fascismo, con l’esercito alleato che risaliva la penisola italiana e le “fortezze volanti” che non davano tregua, le autorità carcerarie del carcere di Pozzuoli, troppo esposto ai bombardamenti, avevano ordinato lo sgombero. In poche ore tutti i detenuti furono trasferiti, tranne uno: don Vito, che fu dimenticato nella sua cella... morì di sete e di terrore, nel penitenziario lugubre e deserto.
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