domenica 21 ottobre 2012

Enrico Mattei






di Domenico Latino





Sono tempi di paura, incertezze, sgomento, incredulità, rabbia. Sono tempi in cui la memoria dovrebbe prendere il sopravvento sulle amnesie.
1962, anno dei boom economici (per alcuni), dei Beatles, della seicento, dei jukebox ma anche di Cuba, della Baia dei Porci, del rischio di una terza guerra mondiale terribile.
L’atomica aveva causato già i suoi orrori (Hiroshima, Nagasaki.. per mano di chi? Di qualche folle dittatore? O dalla decisione di governi così detti democratici?) Quando il pericolo fu evitato, i più, forse, non se n’erano nemmeno resi conto o non ne furono adeguatamente o sufficientemente informati, forse.
1962, muore Enrico Mattei in un drammatico incidente aereo, un nome, forse, estraneo alle nuove generazioni. Dimenticato, forse, volutamente dalle vecchie generazioni o accantonato dalle imperdonabili amnesie.
Francesco Rosi, regista, nel 1972 realizza un film – dossier “Il caso Mattei”, qualche anno prima incarica Mauro De Mauro, giornalista di un quotidiano palermitano, di ricostruire gli ultimi due giorni trascorsi da Mattei in Sicilia.
Ma chi era Mattei?
Il protagonista: Mattei è il presidente dell’Eni (Ente Nazionale Idrocarburi).
Contesti e soggetti: l’Italia, gli americani e le sette sorelle (grandi compagnie petrolifere), i paesi del Medio Oriente e poi il protagonista dei protagonisti “il petrolio”.
Mattei, che tutti chiamano l’Ingegnere, si è prefisso un obiettivo: lo sviluppo del Paese che considera di forti potenzialità; ostacolare il monopolio americano sui pozzi petroliferi in Africa dove gli indigeni vivono in povertà e muoiono di fame, subendo un arrogante sfruttamento e colonizzazione occidentale. Il film di Rosi è la memoria di un fatto archiviato fra i così detti misteri di casa nostra.
Rispettato, temuto, minacciato più volte di morte, Mattei è deciso a combattere i “quattro miliardari” che decidono come muovere i fili legati alla sorte di miliardi e miliardi di esseri umani. Li definisce proprio così “quattro miliardari” prepotenti: mi ha sbalordito sentire la sua definizione, riportata magistralmente dall’interpretazione di Gian Maria Volontè. Dal 1962 ad oggi sono trascorsi più di quarant’anni, dal film-dossier di Rosi una decina in meno ma ciò che dice Mattei ad un giornalista che lo accompagna fra i pozzi petroliferi africani sembrano parole pronunciate appena, appena pochi giorni fa, più o meno dice così: “Se non sarò io a fermarli (gli alleati d’oltre oceano, dei quali, credo, nessuno ha dimenticato o rinnega l’aiuto nell’ultima guerra, anche se ampiamente compensato, ma ciò non vuol dire divenirne i vassalli e condividere sempre e comunque metodi, comportamenti, regole, criteri) saranno i popoli che camminano su queste terre nel cui ventre scorre l’80% del petrolio mondiale.
"Mattei non impone lo sfruttamento delle risorse, come fanno gli americani, ma applica la politica del fifty-fifty. Ai governanti dell’Iran e dell’Egitto, ad esempio, formula questa proposta: l’Eni si sobbarca tutte le spese per la ricerca petrolifera. Se il petrolio non c’è, voi non ci rimettete nulla. Se invece c’è, il paese produttore diventa socio al 50% dell’Eni, dopo aver pagato la metà del costo di sviluppo del giacimento e aver rimborsato le spese iniziali. In più, al paese produttore, va un altro 50%, cioè la differenza tra costo materiale e il prezzo di vendita del greggio. Ovvio che di fronte a questa ardita proposta i paesi arabi, ricchissimi di petrolio, vedono Mattei come un amico, preferendo trattare con lui piuttosto che con altri".
Quando si scopre il metano nel sottosuolo siciliano, oltre che in quello della Lombardia, Mattei si reca nell’isola ed esorta la gente a far ritornare i propri cari emigrati poiché, da lì a poco, ci sarebbe stato lavoro e sviluppo.
Sicuramente l’Ingegnere Mattei amava l’Italia e amava gli italiani, soprattutto amava l’umanità, non a caso uno dei suoi pensieri era di contribuire allo sviluppo dei popoli produttori del così detto “oro nero”, ostacolando la politica (anche italiana) che permetteva benefici solo per i paesi consumatori del petrolio, che, come lui sosteneva, era la causa di tutte le rivoluzioni, guerre, colpi di stato e soprattutto fame e morte per miliardi e miliardi di esseri umani.
Mattei muore, forse, in un incidente. Mauro De Mauro scompare misteriosamente. C’è chi afferma che, forse, è stato ammazzato per il caso Mattei. L’aeroplano, un Morane Saulnier, che avrebbe dovuto riportare l’ingegnere a Milano e da lì a pochi giorni in Algeria per firmare un accordo sulla produzione petrolio scomodo per le “sette sorelle”, si schianta nei cieli della Val Padana e c’è chi dice che è stato sabotato.
2005. Sono tempi in cui soffiano venti di guerra, c’è chi dice che a causarli è il protagonista dei protagonisti “il petrolio” e la prepotenza, mai sopita, di chi ancora crede di poter egemonicamente governare il mondo. Il pensiero e la volontà di Mattei e di uomini come lui, forse, avrebbero ostacolato o cercato di evitare i risultati di questo presente tormentato dagli orrori e dallo stesso pericolo, forse ancor più pericoloso, in cui tutto il mondo fu minacciato nel lontano 1962: la guerra. Saremo capaci di evitarlo per una volta ancora? Sapremo sconfiggere le cause ed i misteri che tormentano gli italiani e l’umanità? Forse.
Certamente l’Italia, come altri paesi, ha avuto i suoi martiri e forse ancora ne avrà. Personalità eccezionali la cui memoria dovrebbe prendere il sopravvento su pericolose amnesie, troppe amnesie. C’è qualcuno in Italia e nel mondo che si ricorda dell’Ingegnere Enrico Mattei? Forse.
Non saranno i troppi “forse” ad aver determinato l’abisso in cui è sprofondato il mondo intero?
Nel lontano 1962, in Sicilia, nel constatare l’accoglienza di grande affetto, rivolta al presidente dell’Eni, il giornalista inglese William Mc Hale che lo accompagnò, poi, nel suo ultimo viaggio, affermò: “Lei, presidente, è molto amato dalla gente...”, “sì”, rispose Mattei, “dalla povera gente si…”.
Enrico Mattei, definito dalla stampa dell’epoca, l’uomo più potente d’Italia dopo Giulio Cesare, muore il 28 ottobre 1962, schiacciato dalla colpa d’aver cercato di contribuire alla costruzione di un mondo più giusto per tutti e nella convinzione che ciò è possibile. Se non in termini assoluti, quanto meno, cercando di avvicinarsi il più possibile eliminando gli orrori, bandendo le arroganze e le prepotenze, senza né-né- o nì-nì, ma con un No fermo, deciso, intelligente, umano. Un criterio, oggi come allora, definito “infantile e utopistico”. C’è chi continua, invece, a “giocare” con uno strumento demenziale quanto folle, ritenendolo inevitabile, e preventivo. Uomini come Mattei non hanno avuto niente d’infantile ma sono stati grandi uomini rimanendo “bambini” dopo aver conosciuto l’arroganza dei “grandi” che offende, insulta, mortifica e distrugge il vero significato di definirsi uomini.
Enrico Mattei nasce ad Acqualagna, un paesino marchigiano con poche centinaia di abitanti, il 29 aprile 1906, primo di cinque fratelli. Il padre era brigadiere. Legatissimo alla madre Angela e alla nonna Ester, fino a tredici anni Enrico vive ad Acqualagna, dove frequenta, senza distinguersi particolarmente, la scuola del paese. Nel 1919, andato in pensione il brigadiere Mattei, la famiglia si trasferisce a Matelica, centro più stimolante e ricco, a metà strada tra Fabriano e Camerino, nel Maceratese. A differenza di Acqualagna, dove la popolazione era dedita essenzialmente all'agricoltura e alla pastorizia, Matelica è un centro dove prosperano diverse aziende, sia pure piccole o piccolissime, che lavorano il ferro, la pietra, la pelle. Questa atmosfera di laboriosità influenzerà profondamente il giovane Enrico, che, dopo un periodo di relativo sbandamento e di noia profonda per la scuola (fra i tredici e i quindici anni egli si dedica soprattutto alla pesca alle trote nel fiume Esino), si impiega in una fabbrichetta di mobili in ferro con mansioni di verniciatore. Un anno dopo è fattorino alla "Conceria Fiore": qui il lavoro gli piace di più, e a diciassette anni diventa operaio, poi operaio specializzato, poi aiutante chimico; a diciannove anni è vicedirettore e a venti direttore. Mattei è sveglio e intelligente, molto incuriosito dai misteri della chimica, molto bravo nel trasmettere a chiunque il suo entusiasmo giovanile e nello sfruttare al meglio il suo inconfutabile fascino personale. Alla fine del 1928 però la Conceria Fiore deve chiudere i battenti in seguito alla grave crisi economica susseguente alla politica deflazionistica instaurata dal fascismo nel ' 26 e Mattei si ritrova senza lavoro. Egli parte allora per Milano, dove non gli è difficile trovare un posto di venditore alla Max Mayer, già fornitrice alla conceria di Matelica di vernici, smalti e solventi per la lavorazione del cuoio. Anche in questo ruolo, il suo forte carattere gli permette di avere subito successo, e già tre mesi dopo lo troviamo rappresentante esclusivo per l'Italia di un'altra ditta tedesca di prodotti per concerie, la Loewenthal. Questo impiego dà a Mattei la possibilità di approfondire le sue conoscenze sui prodotti chimici, e inoltre lo fa viaggiare per tutta l'Italia. E' proprio in questo periodo che egli impara a conoscere bene il Paese, i suoi abitanti e le loro caratteristiche. Un anno dopo, nel 1931, senza per questo abbandonare il suo ruolo commerciale presso la ditta tedesca, Mattei apre una sua piccola fabbrica di emulsioni per conceria, con due soli operai. E' l'inizio del successo: tre anni dopo la sua azienda è ormai lanciata: conta venti dipendenti e si chiama "Industria chimica lombarda grassi e saponi". La fortuna gli viene incontro poco dopo, quando egli riesce a mettere a punto un innovativo prodotto per zuccherifici, in grado di sostituire tutti quelli importati. Dopo gli anni un po' sbandati della prima adolescenza, Mattei mostra subito la tempra del grande condottiero: il coraggio, la capacità di cogliere al volo ogni possibile opportunità e una grande resistenza agli stress e alla fatica sono le doti che lo porteranno molto in alto negli anni della maturità. L'affetto per la famiglia di origine rimane sempre di fondamentale importanza per Mattei durante tutta la vita (a Milano si fa raggiungere da due fratelli, ai quali dà lavoro nella sua ditta), così come il legame con la terra marchigiana. Nel 1936 sposa a Vienna una bella ragazza, Margherita Paulas, ex ballerina di varietà, che gli rimarrà accanto fino alla fine ma che non gli darà eredi, se si esclude un neonato vissuto solo poche ore.
E' di quei primi anni a Milano l'amicizia profonda di Mattei per Marcello Boldrini, suo vicino di casa in piazza della Repubblica. I Boldrini erano stati vicini dei Mattei anche a Matelica, ma allora solo le due madri si frequentavano. Ora Boldrini, cinquantenne professore di statistica all'Università Cattolica di Milano, prende sotto la sua ala l'intraprendente giovanotto suo conterraneo, e con molta delicatezza lo aiuta a colmare le sue numerose lacune culturali. Intorno alla Cattolica in quegli anni gravitano molti nomi interessanti, e Mattei impara a conoscerli e a stimarli: Giuseppe Dossetti, Giorgio La Pira, Amintore Fanfani, Enrico Falck, tutti personaggi che giocheranno ruoli importanti nella vita del giovane Enrico. In quell'ambiente si discute molto anche del ruolo dell'imprenditore cristiano, che si vuole investito di una missione sociale, e delle sue responsabilità verso il popolo, mentre si critica decisamente il capitalismo in favore del ruolo equilibratore dello Stato anche in materia economica. E' la nuova teoria cristiano-sociale basata sul primato etico sia in politica che in economia. Mattei si iscrive ad una scuola serale e prende il diploma di ragioniere. Frequenta poi qualche lezione alla facoltà di Scienze Politiche e si avvicina alle dottrine di Roosevelt, di Gandhi, di Peron, di Franco e di Lenin. Nasce in quel periodo anche la sua passione per la pittura del ventesimo secolo, che lo porterà a collezionare molte opere interessanti. Nel 1943 si avvicina al Partito Popolare e grazie alle sue eccezionali doti di organizzatore nel marzo 1944 gli viene offerto da Orio Giacchi il posto di rappresentante DC nel comando militare del CLN, posto rimasto vacante dopo l'arresto di Galileo Vercesi. Non è facile per il giovane imprenditore decidere un passo come questo, che implica l'entrata in clandestinità, ma dopo averne vagliato attentamente i pro e i contro egli lascia la guida della sua azienda al fratello e accetta la proposta. Este, Monti, Marconi e Leone sono i nomi che Mattei assume operando nella Resistenza di volta in volta come rappresentante politico del CLN, ufficiale di collegamento partigiano, comandante militare democristiano. Egli viene arrestato il 26 ottobre , ma riesce a fuggire trentasette giorni dopo grazie anche ad aiuti esterni. Abile manager, Mattei svolge un ruolo di grande utilità all'interno delle forze partigiane curando i collegamenti interni e occupandosi di reperire e di allocare fondi. Alla fine della guerra Mattei affermerà di aver portato le forze partigiane democristiane da soli 2000 uomini a oltre 65000. Il 5 maggio 1945 egli è in prima fila nel corteo della Liberazione di Milano e riceve la "Bronze Star" dalle mani del generale statunitense Mark Wayne Clark. Nel 1948 viene eletto deputato nella circoscrizione di Milano-Pavia dopo una campagna elettorale decisamente anticomunista: suo compito del resto era sempre stato quello di sottrarre alla sfera comunista-marxista le forze progressiste per avvicinarle invece all'area cattolica della democrazia cristiana. Quale premio per la sua intensa se pur breve azione nella resistenza, Mattei riceve un ben misero incarico: commissario speciale all'Agip (Azienda generale italiana petroli)col compito di chiudere tutte le attività dell'ente e svenderlo.Per Mattei però tale nomina è comunque importante. Egli possiede ancora la sua fabbrica di prodotti chimici e riesce a far nominare suo fratello Umberto, che aveva mandato avanti l'azienda durante la sua clandestinità, commissario del Comitato industriale oli e grassi, e il suo amico Vincenzo Cazzaniga commissario del Comitato oli minerali, carburanti e succedanei: La carica di commissario dell'Agip gli interessa anche perché lo mette a contatto con prodotti non troppo lontani dal settore delle attività della sua ditta di Dergano. E del resto le sue conoscenze di chimica e degli oli avrebbero potuto essergli utili anche all'Agip. L'Agip era stata fondata in epoca fascista, e fino ad allora aveva dato solo dispiaceri al suo padrone: lo Stato italiano. Nata per "cercare, acquistare, trattare e commerciare petrolio", aveva scavato 350 pozzi non solo in Italia, ma anche in Albania, Ungheria e Romania, senza trovare niente, ed aveva finito per cedere per poco anche quelle piccole concessioni in Iran che avrebbero potuto darle qualche soddisfazione. Quando Mattei viene nominato commissario, l'Agip era divisa in due, come del resto la stessa Italia: A Roma era ancora in carica un consiglio di amministrazione dell'ente, mentre al nord Mattei aveva giurisdizione sulle attività relative all'Alta Italia: Premevano per la chiusura dell'Agip diverse forze economiche e politiche: innanzitutto gli americani, e in particolare le compagnie petrolifere anglo-statunitensi riunite nel cartello delle "7 sorelle", decise ad espandere il loro business sul territorio italiano che avevano appena liberato; in secondo luogo le aziende del settore a capitale privato, la Edison di Valerio e la Montecatini, ben attente ad impedire la concorrenza di un ente statale; infine le forze politiche legate al capitale privato e agli aiuti economici americani, nonché i liberali, per principio avversari di ogni intervento statale turbativo della libera iniziativa in campo economico. Favorevoli al mantenimento in vita dell'Agip, oltre naturalmente ai suoi tecnici e alle sue maestranze, sono gli esponenti della sinistra democristiani, fra cui Gronchi e Dossetti, che sostengono la necessità dell'intervento dello Stato attraverso gli enti pubblici nell'industria e nella finanzia, e che sono decisamente contrari ai grandi monopoli privati. Appena assunto l'incarico di commissario, Mattei si mette subito a guardare bene dentro quel giocattolo, deciso a non buttare via alcuna chance, nel caso ne avesse individuata una. A fine giugno incontra l'ingegner Carlo Zanmatti, suo predecessore nel ruolo di commissario Agip e allontanato dal quel posto i suoi precedenti di repubblichino. Mattei ha ormai già capito da solo che l'unico bene rimasto all'Agip è il valore dei suoi tecnici e la loro capacità nell'effettuare ricerche petrolifere. Non è preparato a comprendere quanto gli va dicendo Zanmatti, che gli spiega i pregi del metano per l'utilizzo industriale. Perché gli parla del metano, quando lui vuole il petrolio? Zanmatti gli riferisce che nel corso delle ultime trivellazioni, interrotte nel ' 44 per l'avanzare del fronte bellico, l'Agip ne aveva trovato tracce promettenti a Caviaga, in Val Padana. Mattei prende sul serio le informazioni di Zanmatti, va a Caviaga, parla coi tecnici, si fa spiegare tutto sul metano, poi dà via libera all'ingegnere per riprendere i lavori di scavo, in aperta violazione degli ordini ministeriali ricevuti. Una spinta in questa direzione gli viene anche da un'offerta di Giorgio Valerio, che si offre di acquistare per 60 milioni le attrezzature dell'Agip-Alta Italia. "Se Valerio offre tanto", ragiona Mattei, "allora significa che l'Agip vale molto di più. Forse a Caviaga c'è il petrolio!". Mattei ormai ha varcato il Rubicone e mette al lavoro i tecnici dell'Agip, che comunque da mesi erano pagati senza fare niente. A Raffaele Mattioli, della Banca Commerciale, chiede un prestito per finanziare le attività dell'ente. Il suo appello al capo del governo Ferruccio Parri non rimane inascoltato: l'Agip di Roma e quella di Milano vengono unificate e il 17 ottobre 1945. Mattei è nominato vicepresidente. Significa che la ripresa dei lavori a Caviaga viene di fatto approvata. Nel marzo 1946 il pozzo numero 2 di Caviaga si riempie di bolle: è il metano, che sgorga a 150 atmosfere e aspetta solo di essere incanalato in una conduttura di tubi per essere portato alle industrie da rifornire. Da questo momento, sempre con l'aiuto di Zanmatti, l'Agip gira a pieno regime e Mattei può già intravvedere i futuri grandi utili che riuscirà ad ottenere dalla vendita del metano. Le lotte intorno all'ente però non sono ancora finite: il metano della Val Padana comincia a far gola a molti, e le "7 sorelle" tornano all'attacco molto pesantemente anche a livello politico. Mattei però è convinto di dover assicurare all'Italia risorse petrolifere autonome per garantirle così anche l'autonomia politica, e non intende fare neppure un passo indietro. Il 9 maggio 1947 i suoi avversari riescono a fargli perdere la poltrona di vicepresidente, anche se non ad estrometterlo dal consiglio di amministrazione, e la partita sembra ormai irrimediabilmente perduta per Mattei. Gli americani ottengono l'accesso a tutto il patrimonio delle ricerche Agip e ne prendono visione con molto interesse. Il pozzo di Caviaga viene chiuso e viene venduta la raffineria di Marghera ad una società partecipata dalla British Petroleum. La Edison prepara un piano per trasformare l'Agip in una società posseduta per un terzo dalla Edison stessa, un terzo dall'Agip e un terzo dalla società Metano, partecipata a sua volta dalla Ras e dalla Edison. Mattei, sempre più convinto che l'indipendenza politica passi per l'indipendenza economica, sempre più sicuro che lo sfruttamento dei giacimenti di un Paese spettino allo Stato e solo allo Stato in favore di tutta la popolazione, rimane sconvolto da questi progetti e si appella ad Ezio Vanoni, illuminato esponente in ascesa della sinistra democristiana. Questi a sua volta si rivolge direttamente al capo del governo, Alcide De Gasperi. In cambio dell'aiuto di Mattei alle vicine elezioni (la DC vincerà col 48% contro il 31% del Fronte Popolare), De Gasperi il 10 giugno 1948 fa eleggere un nuovo consiglio di amministrazione Agip: Mattei è vicepresidente, il suo amico Boldrini presidente. Il 19 marzo 1949 dal pozzo numero 1 di Cortemaggiore, vicino a Milano, il metano sgorga umido. Si tratta di petrolio, e di buona qualità. Si scoprirà presto che la quantità di petrolio presente in quel deposito è davvero poca, ma Mattei sfrutta al massimo l'impatto psicologico di quel ritrovamento, riuscendo a sventare nuovi attacchi dei suoi infaticabili avversari, che stavano per far approvare una legge mineraria tale, che "la stessa Standard Oil non avrebbe potuto fare di meglio". L'annuncio del ritrovamento petrolifero a Cortemaggiore giunge al momento giusto. "Il giacimento di Cortemaggiore", dichiara Mattei,"è di un'importanza rilevantissima. Sarebbe oggi difficile calcolarne il valore, che indubbiamente è molto rilevante". Gli dà una mano anche il Corriere della Sera, con articoli così entusiastici da far salire i titoli delle società Anic e Petroli, le due aziende del gruppo quotate in borsa. A questo punto il parlamento approva la proposta di Vanoni di riservare allo Stato le ricerche nel sottosuolo della Val Padana, lasciando libertà di ricerca nel resto del Paese. La risposta di Mattei è una forte accelerata al ritmo delle trivellazioni, e i risultati non si fanno attendere: giacimenti di gas vengono individuati a Cornegliano (MI), Pontenure (PC), Bordolano (CR), Correggio (RE), e Ravella. Oltre ad estrarre il metano, l'Agip deve però pensare anche a trasportarlo, e per fare questo deve posare i tubi del suo metanodotto. Mattei non va certo per il sottile: egli stesso si vanta di aver trasgredito almeno 8000 tra leggi, leggine e ordinanze varie. Il suo metodo consiste nel fare prima, e nel discutere poi. I suoi uomini scavano di notte per posare i loro tubi, e poi di giorno ricoprono gli scavi con molte scuse. A chi protesta, Mattei offre concambi vantaggiosi: il restauro della chiesa, se è il parroco a lamentarsi, l'acquisto del raccolto se sono i contadini a sentirsi danneggiati, la concessione della gestione di una pompa Agip o un posto di lavoro fisso, o anche una raccomandazione a Roma, a seconda dei bisogni. Se il sindaco è comunista, Mattei rispolvera il suo passato di partigiano, a volte si fa amico qualche maresciallo dei carabinieri raccontando gli exploit di suo padre, il fatto è che riesce sempre ad installare le sue strutture in tempi record e quasi sempre senza contestazioni. Le sue risorse più importanti sono senza dubbio alcuno i suoi uomini, che lo aiutano in tutti i modi. Tutti scelti personalmente da lui, gli sono fedeli e lavorano con entusiasmo, pronti a spendersi senza risparmio. Moltissimi sono di Matelica ( tanto che la sigla della Snam, società creata dall'Agip specificamente per la ricerca, viene tradotta in "Siamo nati a Matelica" ), altri provengono dalle forze dell'ordine, altri dalla Resistenza, altri ancora sono raccomandati da amici influenti, ma tutti gli sono grati e sono pronti a farsi in quattro per lui. Gli riconoscono una indubbia leadership ed ammirano la sua totale dedizione al lavoro. Da dove provengono i soldi che Mattei usa generosamente per spianare la strada alle attività dell'Agip? Certamente dal metano. Un metro cubo di metano viene venduto a 12 lire, con un margine medio di guadagno di 8,5 lire al metro cubo, e questi altissimi profitti non risultano da nessuna parte nei bilanci dell'ente. Mattei non utilizza neppure una lira per se stesso, ma profonde denaro a larghe mani per garantirsi coperture politiche e appoggi giornalistici, per legare a sé gli uomini migliori e per acquistare le attrezzature più moderne. La sua attività continua instancabile: egli si deve continuamente difendere dagli attacchi dei suoi nemici, che tramano per ottenere leggi a loro favorevoli; si prodiga per convincere gli imprenditori ad utilizzare il suo gas anche se ciò comporta l'adattamento dei loro impianti; continua a posare chilometri e chilometri di tubi per i suoi gasdotti;allarga ilraggio delle sue trivellazioni. Per vendere il suo metano, egli utilizza tutti i metodi che aveva imparato quando vendeva vernici e prodotti per concerie: annunci sui giornali, incarichi a piazzisti, l'invenzione di slogan di successo come "Supercortemaggiore, la potente benzina italiana" e logo affascinanti come il famoso cane a sei zampe che sputa fuoco dalle fauci aperte. Ma la benzina Agip è anche di ottima qualità, e le pompe Agip sono nuove e ben attrezzate, i gabinetti sono puliti e il personale offre numerosi servizi gratuiti come la pulitura dei vetri o il controllo dell'olio e dei pneumatici. Pochi anni dopo Mattei importerà dagli Stati Uniti l'idea dei motel, che impianterà su tutto il territorio nazionale per il conforto anche notturno dei viaggiatori.
Tra il 1950 e il 1952 Mattei deve affrontare nuove battaglie a Roma per ottenere la costituzione dell' ENI (Ente nazionale idrocarburi), di cui diventa presidente nel luglio 1952. Vicepresidente è il suo maestro e amico Marcello Boldrini. Agip, Agip mineraria, Romsa e Snam sono le società guidate dall' ENI, e Mattei si occupa personalmente di ognuna di loro. Il 4 marzo 1953 egli si dimette dalla sua carica di deputato in Parlamento per dedicarsi completamente alle sue aziende.
Nel 1954 la sua campagna per la vendita del liquigas in bombole trasforma le abitudini degli italiani: egli toglie l'obbligo di cauzione per le bombole e ne ribassa il prezzo del 12%. I camioncini Agip portano le bombole in ogni casa, anche nei luoghi più isolati, e le famiglie italiane imparano ad apprezzare i vantaggi delle cucine a gas, che vengono a sostituire le molto più impegnative stufe a legna o a carbone. Producendo fertilizzanti con l'idrogeno derivato dal metano, Mattei ne abbassa il prezzo anche del 70%, mettendo così in grado quasi tutti gli agricoltori di coltivare i loro campi sfruttandone al meglio le possibilità. Anche il prezzo della benzina viene ribassato, e questa politica dell'ente statale mette in crisi la concorrente Edison, che viene incorporata dalla Montecatini. Sarà poi il successore di Mattei, Eugenio Cefis, a scalare la Montedison per conto dell' ENI.
Cedendo alle pressanti richieste del suo amico Giorgio La Pira, sindaco di Firenze, e di Amintore Fanfani, Mattei rileva gli stabilimenti Pignone, un'industria meccanica decotta e vicina al fallimento e in pochi anni ne fa una ditta leader nella produzione di tecnologie innovative al servizio della ricerca e dell'estrazione di risorse del sottosuolo, anche utilizzando piattaforme marine.
A questo punto a Mattei resta un solo vero problema: il petrolio di Cortemaggiore non è certo abbondante, e lui ha grosse difficoltà a reperirne all'estero, dove il cartello delle 7 sorelle non gli lascia spazio.Il suo tentativo di approfittare della crisi tra il governo iraniano e la British Petroleum offrendo allo Scià un contratto vantaggiosissimo non passa, e neppure riesce ad entrare nel consorzio di Abadan per l'opposizione decisa delle grandi compagnie che lo considerano un avventuriero, un "petroliere senza petrolio". Ma ogni affronto fatto all' ENI è per Mattei uno sgarbo all'Italia, egli ne soffre e attende il momento per rifarsi.Il 12 aprile 1956 inaugura il villaggio di Metanopoli alle porte di Milano, il 21 dello stesso mese esce il primo numero de "Il Giorno", quotidiano finanziato dall' ENI e diretto da Gaetano Baldacci, brillante e spregiudicato giornalista marchigiano,sempre controllato molto da vicino da Mattei.Oltre ad essere una evidente cassa di risonanza dei successi dell' ENI,iIl Giorno apre una svolta nel giornalismo italiano: vivace e innovativo negli articoli e nelle fotografie, raggiunge in certi momenti tirature altissime, anche se a fronte di costi sempre esagerati. La linea politica de Il Giorno propone un avvicinamento ai Paesi africani e mediorientali in contrasto con le strategie dei Paesi ex colonialisti, Francia e Gran Bretagna. Gli Stati Uniti guardano con preoccupazione questa linea, condivisa dal presidente Gronchi, da Amintore Fanfani e dal ministro per gli affari esteri Pella, denominata "neoatlantismo".
Dopo essere riuscito a fare approvare l'11 gennaio 1957 una legge mineraria che garantisce all'ENI libertà di azione in Italia e all'estero, Mattei dedica tutte le sue energie a tessere rapporti sempre più stretti con i Paesi produttori. Lo troviamo in Egitto, in Iran, in Libia, in Giordania.
Mattei non si sente affatto legato alle regole tradizionale dei contratti fino ad allora portati avanti dalla compagnie petrolifere americane e inglesi, e non ha remore ad offrire ai Paesi produttori condizioni molto più favorevoli. Rompendo con l'abituale percentuale del 50%, egli arriva ad offrire fino al 75% , e in più fa dei Paesi produttori i suoi partner in imprese di cui lui solo sopporterà i rischi. Egli offre tecnologia, borse di studio per le sue scuole di formazione a Metanopoli, partecipazione nei riguardi delle aspirazioni di riscatto di questi Paesi ritenuti da altri arretrati e poco civilizzati. Mattei piace ai leader dei Paesi produttori perché, diversamente dai petrolieri delle 7 sorelle, egli non si rivolge a loro con quell'atteggiamento di superiorità tanto inviso ai Paesi in via di sviluppo in quanto carico di echi colonialisti. E questi Paesi non considerano l'Italia un Paese ex colonialista. Mattei sa di avere bisogno di quel petrolio che non ha potuto trovare nel sottosuolo italiano, e guarda ai Paesi esportatori con vivo interesse e anche con rispetto. Egli non si sente intrinsecamente superiore ai suoi interlocutori mediorientali o nordafricani, ma anzi è pronto ad ingaggiare con loro una sfida intelligente volta alla conclusione di affari vantaggiosi per entrambe le parti in causa. Egli sa bene che gli accordi capestro creano a lungo andare solo nemici, e vuole seriamente instaurare buone relazioni con questi Paesi. La politica estera di Mattei mette spesso a disagio il governo italiano (molto più timoroso e tradizionalista di lui), sempre preoccupato di pestare i piedi alle grandi potenze. Come scrive Nico Perrone nel suo libro su Mattei, " i progetti di Mattei talvolta andavano oltre il campo degli affari... Essi ipotizzavano persino la promozione di una federazione non vincolata (loose federation) fra Marocco, Algeria, Tunisia, ed eventualmente Libia, in vista di una associazione di cooperazione e sviluppo coi Paesi europei... In questa federazione, strana e un po' confusa, Mattei pensava di coinvolgere gli Stati Uniti e persino l' URSS, volendo tuttavia conservare all'Italia una funzione di iniziativa e di leadership".
A Tunisi Mattei installa la sede di un "Ufficio per le relazioni con la stampa in Africa del Nord", incaricato dei rapporti con il Fronte di Liberazione Nazionale algerino, mentre più tardi istituirà a Beiruth un "Ufficio per le relazioni con la stampa nei Paesi del Medio Oriente".
Nel 1957 Mattei riesce a chiudere un sospiratissimo contratto con l'Iran: nelle trattative egli aveva offerto persino una visita ufficiale del presidente della Repubblica italiana in Iran e, pare, la mano di Maria Gabriella di Savoia per Reza Pahlavi. In Iran l' Eni può ora effettuare le sue ricerche in tre zone, anche se molto impervie, due addirittura in mare. Ma il vero successo di Mattei sta nell'aver fatto breccia nel sistema monopolistico anglo-americano, e questo egli lo sa bene. Anche se non riesce subito ad ottenere concessioni in Iraq e in Libia, si consola in Marocco, dove il re Maometto V intesse buoni rapporti con lui, e con le aperture che gli offrono i rivoluzionari algerini nel loro Paese.Nel 1958 arriva una piccola commessa anche in Giordania. La troppo disinvolta gestione dei fondi ENI espone Mattei ad attacchi violenti in patria e a molte critiche, che sfociano in una pericolosa campagna stampa sostenuta contro di lui e ispirata dalle 7 sorelle. Altri attacchi gli arrivano per la partecipazione dell' ENI alla costruzione della centrale nucleare di Latina e per essersi nascosto dietro una anonima "Compagnia di ricerche idrocarburi" per rientrare in rapporto con la Libia. Ormai nulla può però fermare Mattei, che gioca su così tanti tavoli, da poter sempre bilanciare una sconfitta con altre vittorie. Ottiene infatti permessi di scavo in Cirenaica, e si muove anche in Sicilia, territorio a lui finora precluso dalla legge mineraria nazionale. Il suo appoggio al deputato regionale Silvio Milazzo gli apre subito la via ai primi scavi dell' ENI nell'isola. Guardando all' Europa, dà l'avvio ad un ambizioso progetto di oleodotto da Genova all'Inghilterra, attraverso la Svizzera, la Germania, la Francia, anche se è ancora troppo presto per aver ragione del fronte degli industriali europei.  Il suo attivismo non ha più limiti: l' ENI acquista la "Lanerossi" entrando così nel settore tessile e la "Società italiana vetro", per affacciarsi anche nel settore vetrario. Ottiene concessioni di ricerca petrolifera in Somalia, Egitto, Iran, Marocco, Libia, Sudan, Tunisia. Riesce ad introdursi perfino in Cina, dove firma un accordo per la consegna di fertilizzanti.
Le reti di distribuzione (4.434chilometri di metanodotti in Italia nel 1962) si snodano in Africa dalla Costa d'Avorio all' Etiopia, dal Marocco al Senegal, dal Ghana alla Somalia, dalla Tunisia al Sudan; in Asia in Libano, Giordania, India, Iran, Iraq, Pakistan; in America latina, in Argentina.
Dopo una visita di Mattei in Unione Sovietica, si aprono le frontiere di questo grande Paese per i contratti con l' ENI, e il primo contratto alla fine del 1960 prevede l'acquisto di petrolio in cambio di gomma sintetica, tubi e apparecchiature tecnologiche avanzate per la ricerca e l'estrazione.
In un certo senso Mattei non può essere considerato estraneo ad un avvenimento politico ed economico di grande importanza: la nascita, il 9 settembre 1960, dell'OPEC, Organisation of Petroleum Exporting Countries, cui aderiscono Iran, Arabia Saudita, Iraq, Kuwait, Venezuela.
L'OPEC infatti è la riprova di una nuova presa di coscienza del proprio ruolo da parte dei Paesi produttori, e Mattei ha giocato un ruolo fondamentale dimostrando loro che i "dictat" delle 7 sorelle non erano inconfutabili. Le scuole di Metanopoli ospitano ormai studenti provenienti da tutti i Paesi con cui l' ENI ha rapporti, e Mattei sa che questo investimento darà i suoi frutti negli anni a venire, quando i suoi ex-allievi avranno raggiunto posizioni preminenti nei loro Stati.
Nel 1961 la prima petroliera italiana carica di petrolio iraniano estratto dall'Agip attracca nel porto diBari: è un grande successo personale per Mattei! Nel 1962 l' ENI dà lavoro a 55.700 persone, investe 209 miliardi, ne fattura 357, possiede 15 petroliere e guadagna 6 miliardi ufficiali, ma probabilmente più di 50. I debiti ammonteranno, nel 1963, a 700 miliardi di lire.
Si tratta di un colosso con interessi in mezzo mondo, guidato da un solo uomo, che ne tiene strettamente in pugno i destini. Troppo potere, troppo denaro, troppi onori, troppi nemici.
Alle 18,55 del 27 ottobre 1962 l'aereo di Enrico Mattei, in avvicinamento all'aeroporto di Linate proveniente da Catania, si schianta al suolo vicino a Bascapé, in provincia di Pavia.
Era ai comandi un esperto pilota, il comandante Bertuzzi, con Mattei dal 1958.
Disastro o attentato? Il dilemma non sarà mai risolto, anche se suona molto sinistro il fatto che pochi giorni prima fosse stato trovato un cacciavite "dimenticato" nella presa d'aria di un motore.


“Il petrolio fa cadere i governi, fa scoppiare le rivoluzioni, i colpi di stato, condiziona l’equilibrio nel mondo … se l’Italia ha perso l’autobus del petrolio è perché gli industriali italiani, questi grandi industriali, non se ne sono mai occupati … non volevano disturbare la digestione dei potenti...
Il destino di milioni e milioni di uomini nel mondo in questo momento dipende da 4 o 5 miliardari americani…
La mia ambizione è battermi contro questo monopolio assurdo.
E se non ci riuscirò io, ci riusciranno quei popoli che il petrolio ce l’hanno sotto i piedi.”



 “Una ventina di anni fa ero un buon cacciatore e andavo molto spesso a caccia. Avevo due cani,un bracco tedesco e un setter ,e cominciando all’alba  e finendo a sera,su e giù per i canaloni, i cani erano stanchissimi. Ritornando a casa dai contadini,la prima cosa che facevamo era da dare da mangiare ai cani  e gli veniva dato un catino di zuppa,che forse bastava per cinque.
Una volta vidi entrare un piccolo gattino,così magro,affamato,debole. Aveva una gran paura,e si avvicinò piano piano. Guardò ancora i cani,fece un miagolio e appoggiò una zampina al bordo del catino. Il bracco tedesco gli dette un colpo lanciando il gattino a tre o quattro metri,con la spina dorsale rotta. Questo episodio mi fece molta impressione.
Ecco ,noi siamo stati il gattino,per i primi anni………”

Enrico Mattei   23 Marzo 1961

sabato 20 ottobre 2012

Amedeo Guillet, l'uomo sul cavallo bianco


di Domenico Latino









La mia avventura insieme al barone Amedeo Guillet ha inizio alcuni giorni addietro: una calda mattina di giugno, dopo una lunga attesa, il corriere mi consegna il pacchetto che aspettavo con ansia. Con sollievo rientro a casa e in cucina, godendo del fresco venticello del ventilatore, con la vista ancora alterata dal sole, comincio a scartare con avidità il mio fagotto bianco carico di timbri e segni che confermano la distanza percorsa per arrivare a destinazione. È incredibile quante sensazioni possa provocare in me un pacco da scartocciare! Spesso penso che io sia più attirato dal fatto che non dall’ effetto e in realtà ho sempre preferito la gioia delle sorprese alla consistenza dei regali. Una foto in una vecchia tonalità richiama la mia attenzione e pian piano prendono forma ai miei occhi i contorni di un elegante soldato e del suo bianco destriero: è la copertina di un voluminoso libro; finalmente ho fra le mani la biografia che tanto mi incuriosiva: Sebastian O’ Kelly – Amedeo. Vita, avventure e amori di un eroe italiano in Africa Orientale. Al riparo dalla calura estiva e stimolato dall’argomento mi stendo sul mio comodo divano e mi tuffo nella lettura di un personaggio, ahimè, poco conosciuto, ritrovandomi ben presto proiettato indietro nel tempo, in un mondo oramai scomparso ma non per questo meno affascinante: il mondo coloniale europeo in Africa, quando la nazione italiana era ancora in fase di formazione, il mondo delle masse contadine di cui il cavallo fu principale fonte di forza economica e militare, dell’eclissi dell’aristocrazia come propulsore della politica e classe di potere. Leggo del fascino esotico dell’Africa, dei mantelli dei cavalieri, dei ricevimenti di gala e del coraggio di uomini in arme che hanno rinunciato alla loro giovinezza per combattere le guerre italiane del ventesimo secolo.
Dicembre 1941. Hodoeida, Yemen. Il sole sopra la testa e le strade roventi mettevano a tacere le grida dei mercanti e gli scricchiolii dei carretti. Alcune donne della città raccoglievano gli avanzi del pasto della sera precedente e si incamminavano attraverso il groviglio di vicoli maleodoranti, fino alla piazzetta di fronte la prigione. All’interno della cella, più bassa del livello della strada, una debole luce penetrava nel buio e i prigionieri sapevano che, in quelle ore del primo pomeriggio, sarebbe arrivato l’unico pasto della giornata. Croste di pane, pezzi di pesce e frutta sarebbero piovuti giù all’improvviso dalle sbarre in alto. Alcune donne che offrivano il cibo erano mogli o parenti, altre semplicemente mostravano compassione per gli incarcerati rispondendo alle prescrizioni del Corano. Gli uomini impediti dai ceppi balzavano in avanti per gettarsi sui resti, spingendosi l’un l’altro. Uno di loro era più lento degli altri e zoppicava a fatica verso il cibo tenendo sollevate le catene che gli legavano i piedi con un pezzo di corda. Attorno alla caviglia destra, sotto i ceppi che cercava di tener alzati, aveva una fasciatura sporca, incrostata di sangue rappreso e marciume. Anche se sempre per ultimo, riusciva comunque a trovare qualcosa: una testa di pesce, un angolo di pane frantumato o un tortino di riso ridotto in briciole, che raccoglieva poco alla volta dal pavimento di terra battuta. Gli altri carcerati, malviventi, contrabbandieri, furfanti, imbroglioni o innocenti finiti lì per sbaglio, non avevano nulla a che vedere con lo straniero che diceva di chiamarsi Ahmed Abdullah al Redai.  Vestito di panni luridi che ricadevano larghi intorno al suo corpo scarno, sebbene parlasse con scioltezza arabo, aveva un forte accento straniero e tutti sapevano che non era un yemenita della città di Reda, come voleva far credere il suo nome. Il prigioniero rimaneva seduto fermo per ore in un angolo della cella, la schiena appoggiata contro il muro di pietra; di quando in quando, si alzava lentamente e si trascinava fino alla vasca con l’acqua comune, portandosi alle labbra un mestolo ricavato da una vecchia scatola di latta. C’era poi un secchio fetido per le altre necessità dei prigionieri, al quale Ahmed si avvicinava sopprimendo la sua continua sensazione di nausea. Ormai provava tristezza al ricordo della speranza accesasi in lui quando per la prima volta aveva scorto le montagne dello Yemen coperte da un coperchio di nuvole, a bordo del sambuco che lo aveva traghettato dall’Eritrea attraverso il Mar Rosso. Sembrava fossero passati dei mesi da quando aveva rivelato all’ufficiale più alto in grado del porto di non essere un musulmano ma un militare italiano che aveva combattuto contro gli inglesi. Aveva comandato ottocento cavalieri e ora, nello Yemen, cercava scampo dai suoi nemici. L’ufficiale, un giovane elegante in tunica di seta bianca, sedeva sotto una tettoia sulla spiaggia, su dei cuscini, sopra un tappeto steso sulla sabbia e scrutava in silenzio la figura davanti a lui. Vestito di abiti miseri, senza denaro né documenti di identità, sembrava uno dei mille arabi disperati disseminati lungo la costa, che tentavano di sopravvivere in tempi difficili. Aveva mani ruvide e callose, la faccia segnata dalle intemperie e una cicatrice lungo la guancia destra e, nonostante gli occhi grigio-azzurri fossero splendenti, le sclere erano ingiallite dalla malaria. Ma c’era qualcosa in lui che tratteneva il giovane ufficiale dal congedarlo. Sarebbe potuto rimanere in quel sotterraneo per anni senza che il mondo di fuori se ne accorgesse. Adesso, tutti gli sforzi fatti per fuggire agli inglesi sembravano inutili; se almeno si fosse arreso con gli altri, il nemico avrebbe rispettato il suo grado e lo avrebbe tenuto in vita. E invece la fortuna lo aveva abbandonato e lui stava diventando ogni giorno più debole. La ferita da pallottola alla caviglia gli aveva fatto gonfiare le ghiandole della coscia e la cancrena non avrebbe tardato a formarsi. Durante le lunghe e monotone ore nella cella soffocante, la mente del prigioniero ritornava agli anni precedenti la guerra, che avevano già l’inconsistenza dei sogni. I ricevimenti e i balli a Roma e a Torino, a Budapest e a Berlino si fondevano l’un l’altro in un ricordo confuso di sete rilucenti e di distinte divise. Gli lampeggiavano nella mente, quasi a volerlo beffeggiare, facce di amici quasi sfumate nei ricordi, che parlavano a voce alta e ridevano : ufficiali dell’esercito di buona famiglia come lui, donne dell’alta società e alcune tra le nuove stelle del cinema italiano. In quelle occasioni era stato festeggiato come uno dei campioni dello sport italiano, la grande speranza della squadra di equitazione alle Olimpiadi di Berlino del 1936. La mente febbricitante del prigioniero ricominciò a vagare e si sentì frastornato e disgustato come lo era stato una volta a Budapest, portato in trionfo tra fiumi di champagne e acclamato come il “conquistatore dell’Abissinia”. Poi tutt’a un tratto era in piedi davanti alla piccola figura del re d’Italia, in uno dei ricevimenti reali per giovani eletti a Villa Savoia, a Roma. Vittorio Emanuele III, lo conosceva fin dall’infanzia. Il momento successivo era a Tripoli dove passeggiava nei profumati giardini del Castello al braccio di Italo Balbo, governatore della Libia, preoccupato che la nuova alleanza del duce con la Germania nazista li avrebbe portati tutti alla rovina...
Quando pensava, come accadeva di frequente, alle due donne che lo amavano, si risvegliavano in lui emozioni più forti. Pensava a Kadija con un misto di colpa e di desiderio. Chiuse gli occhi e la rivide, insicura all’entrata della sua tenda, con la lampada a petrolio che metteva in risalto le sue forme e faceva apparire ombre nero pece tra le pieghe dello sciamma bianco che le avvolgeva la testa e le spalle contro il freddo della notte. Quel giorno aveva seppellito molti uomini, compresi alcuni di quelli che gli erano più vicini. Con gli occhi arrossati aveva guardato Kadija avvicinarsi al suo letto e, senza dire nulla, togliergli gli stivali che usava per cavalcare. In quel momento di tenerezza, in cui la felicità e la vita stessa sembrano così fugaci, l’aveva presa tra le braccia. Kadija diceva che era il suo capo, e in quei giorni era stato davvero un onnipotente comandante, uno dei più incoraggianti ufficiali del duca d’Aosta, viceré dell’Africa Orientale Italiana. Dopo che gli inglesi avevano sconfitto gli italiani distruggendo l’impero africano del duce, tuttavia, non aveva avuto più nulla da offrirle, eppure lei era rimasta al suo fianco. Era diventato un semplice shifta, un bandito che continuava inspiegabilmente a combattere con un manipolo di ascari quando il resto dell’esercito italiano si era già arreso. Kadija non si allontanava mai dal suo fianco, sparando ai camion inglesi, che si arrampicavano dondolando sulle strade montuose dell’Eritrea, con la sua vecchia carabina austroungarica. “Ay zosh! Ay zosh! Su! Su!” urlava in tigrino mentre il gruppo lacero si avvicinava per saccheggiare e uccidere. Stesa al suo fianco sopra il tappetino di paglia del loro tucul, gli aveva assicurato che combattendo con gli uomini portava loro fortuna. Lui l’aveva guardata addormentarsi, coprendole le spalle nude con una vecchia coperta e poi baciandole le ingarbugliate trecce nelle quali raccoglieva i capelli. Nel buio della cella gli occhi del prigioniero si riempirono di lacrime. Provava a convincersi che aveva sempre cercato di essere sincero: Kadija sapeva fin dall’inizio che un giorno si sarebbero separati e che c’era qualcun altro a casa ad aspettarlo, una donna che lui amava e alla quale aveva chiesto di diventare sua moglie. Lei abbassava la testa e diceva che capiva, ma in cuor suo continuava a sperare che non sarebbe mai partito. Il prigioniero ignorava quali sentimenti provasse ora Beatrice Gandolfo nei suoi confronti, non sapeva se stesse ancora aspettando il suo ritorno, se avesse trovato qualcun altro o se si fosse addirittura sposata.Il suo nome non era tra quelli dei caduti in battaglia, e non compariva nemmeno nelle liste degli ufficiali italiani rinchiusi nei campi di prigionia in India, Kenya e Sud Africa, che gli inglesi consegnavano alla Croce rossa. Era semplicemente “disperso” , nel vuoto creato dal crollo dell’Africa Orientale Italiana. Si ripeteva che qualsiasi cosa Beatrice, Bice come la chiamava lui, avesse deciso, non l’avrebbe biasimata. Non avrebbe potuto: si conoscevano da tutta la vita e il legame tra di loro, che erano cugini, oltre che innamorati, era troppo stretto per poter essere spezzato. Quando era ospite dei Gandolfo a Napoli o quando andavano insieme a fare il bagno nella loro residenza estiva di Vietri, le sorelle maggiori di Bice avevano sempre avuto per Amedeo molte più attenzioni di quante ne avesse avute lei. Erano loro a voler conoscere l’ultimo scandaloso pettegolezzo su Edda Ciano, la figlia dai capelli biondo platino del duce, o che abiti portassero le principesse reali o ancora se uscisse davvero con la stella del cinema Elsa Merlini, come scrivevano i giornali. Ancora adolescente, Bice lo osservava assorta con i suoi occhi castano scuro, sorrideva leggermente ma non diceva quasi nulla. Si ricordò il giorno in cui capì che si stava innamorando della sua giovane cugina, mentre navigavano lungo la Costiera amalfitana a bordo di una piccola barca, e inizialmente il pensiero lo aveva spaventato. Bice aveva nuotato fino alla parete rocciosa a strapiombo della costa e si era arrampicata sopra un’alta sporgenza, ignorando i suoi avvertimenti. Lo aveva guardato, giù nella barca, aveva sorriso e poi si era tuffata in mare. I lunghi capelli biondo rossicci, fluttuavano sott’acqua verso di lui. Se il destino fosse stato diverso avrebbero avuto una vita in comune e dei figli, e sarebbero invecchiati insieme. Ciò che più rattristava Amedeo era il pensiero che Bice non avrebbe mai saputo cosa gli era successo. Sarebbe morto qui, seppellito e presto dimenticato come il pazzo Ahmed Abdullah al Redai, senza lasciare alcuna traccia nel mondo dell’uomo che era stato. 
Il giovane e animoso Tenente Amedeo Guillet nasce a Piacenza nel 1909. Di nobile stirpe piemontese-campana, suo nonno, ufficiale sabaudo arrivato al Sud per fare l’Unità, aveva infatti sposato la figlia di un cittadino illustre di Capua. Ufficiale di cavalleria del Regio Esercito, fu campione di equitazione - superò le selezioni per la squadra nazionale che gareggiò alle Olimpiadi di Berlino -oltre che soldato coraggioso. Veterano della conquista dell’Etiopia nel 1936 e del conflitto civile spagnolo, allo scoppio della Seconda guerra mondiale si trovava in Africa Orientale Italiana, dove il viceré, il Duca d’Aosta, gli aveva affidato il comando del Gruppo Bande Amhara a cavallo, un reparto indigeno formato da eritrei, etiopi e yemeniti a lui fedelissimi. L’azione di Amedeo lasciò il segno: nella battaglia di Cherù lanciò una travolgente carica che per poco non gli permise di catturare il quartier generale della Gazelle Force, l’avanguardia nemica. Fu un’azione memorabile, che ritardò di un giorno l’avanzata inglese permettendo alle nostre forze di riorganizzarsi, e fece di lui una figura leggendaria. Tagliato fuori dalla madrepatria, mal equipaggiato e privo di rinforzi, l’esercito italiano combatté con coraggio disperato contro gli inglesi invasori: nel decisivo scontro di Cheren i generali Carnimeo e Lorenzini furono sopraffatti dopo due mesi di resistenza accanita. Guillet, però, non si arrese. Conosciuto dai suoi uomini come cummandar-as-sheitan, il “comandante diavolo”, in sella al suo splendido cavallo Sandor intraprese una vera e propria guerra privata contro gli inglesi. Lo accompagnava la bellissima Kadija, la giovane figlia di un capovillaggio etiope che, innamoratasi di lui, decise di condividere i pericoli e l e paure di una vita impossibile. Neppure quando il Gruppo Bande cessò la sua guerra Amedeo considerò l’ipotesi di cedere le armi. Abbandonata la divisa, trasformatosi nello yemenita Ahmed Abdullah al Redai, sopravvisse facendo l’acquaiolo e riuscì dopo mille peripezie a raggiungere lo Yemen, dove dopo un breve periodo di carcerazione, si improvvisò maniscalco e veterinario per poi diventare apprezzato consigliere dell’Imam regnante. Di lì nel settembre 1943 riuscì a raggiungere l’Italia da clandestino per battersi contro i tedeschi nell’ultimo anno e mezzo di guerra. La nobildonna napoletana Beatrice Gandolfo alla fine del conflitto sarebbe diventata la compagna della sua vita. Fedele al giuramento che lo legava al re, abbandonò la divisa dopo il referendum del 2 giugno e intraprese la carriera diplomatica che lo portò in diversi paesi arabi tra cui, in qualità di ambasciatore, la Giordania, il Marocco e l’India. Ritiratosi nel 1975 in Irlanda, ha continuato a dedicarsi ai cavalli, alla musica e alla pittura.
Tuttora i giornali d’oltremanica dedicano ammirati articoli ad Amedeo Guillet, un italiano che smentisce il luogo comune - ben diffuso tra i Britannici - secondo il quale gli Italiani sarebbero “useless in combat’, inetti in battaglia.
Una delle virtù di Amedeo Guillet fu la capacità dell’amministratore, dell’ufficiale coloniale, di riconoscere l’onore dell’indigeno, cioè la sua identità e dignità. Cosa difficile nella situazione coloniale che era situazione di ineguaglianza di diritti. Del resto, una delle ragioni del fallimento della colonizzazione - celebrata come the white man burden – come il fardello  civilizzatore che l’uomo bianco si era accollato assumendo la responsabilità delle colonie, è appunto stata l’incapacità nel riconoscere l’onore dell’altro. Quello che  militari come Guillet  avevano era un senso così alto dell’onore di sé, della nazione che rappresentavano, da saper istintivamente riconoscere l’onore altrui. La storia di Guillet rimane soprattutto un esempio di coraggio, correttezza e fedeltà ai propri principi, quale non è dato spesso trovare nella nostra storia recente. Guillet fu soldato come un Don Chisciotte più realista e fortunato. Credeva in una missione civilizzatrice dell’Italia da compiere nel rispetto delle tradizioni altrui. Sui gagliardetti del suo Gruppo Bande, costituito attingendo a svariate etnie, non mise i simboli del fascismo ma, insieme, la croce cristiana e la mezzaluna islamica, oltre al suo motto, “Semper Ulterius”, allo stemma sabaudo e a quattro code di cavallo. Gli eritrei non lo ricordano come un invasore ma come un eroe delle loro lotte per l’indipendenza, anzi per essi egli rappresenta il primo eroe dell’indipendenza eritrea, al punto che lo stesso presidente lo ha ospitato con onori degni di un Capo di Stato.


“Il 19 gennaio, la IV e la V Divisioni Indiane attraversarono il confine a nord del Nilo Azzurro e incontrarono scarsa resistenza, anche se a un certo punto vennero caricate da un Ufficiale italiano su un cavallo bianco, alla testa di una banda di cavalieri Amhara lanciata alla disperata contro le loro mitragliatrici.” 
(John Keegan, La Seconda Guerra Mondiale).

“A Brindisi, incontrò a una mensa alleata due degli ufficiali britannici che gli avevano dato la caccia in Eritrea. “Che fortuna non avervi incontrato allora!” dissero cavallerescamente alzando il bicchiere alla sua salute. “Che fortuna per voi, forse. Che disgrazia per me, di certo!” rispose con amarezza il Tenente Colonnello Guillet.” 
(Indro Montanelli, Gli incontri).

venerdì 19 ottobre 2012

La rivolta dei Boxer

            
                                                                       di Domenico Latino

C’era una volta, in un paese lontano, una bellissima città. Aveva ricchi palazzi, splendidi templi, coloratissimi archi di trionfo, magnifici giardini e migliaia di armoniose case grigie, ognuna costruita attorno a un tranquillo cortile, tutte allineate lungo lo schema regolare di strade e vicoli come su una scacchiera. Tutt’attorno, per ventisei chilometri, aveva alte mura, imponenti. Le mura avevano magnifiche porte, a guardia delle quali stavano dei leoni di pietra. Era una città sacra, costruita sul bordo di un deserto, secondo un progetto che era venuto direttamente dal cielo. La città aveva un magico incantesimo. Possedeva un fascino cui era impossibile sfuggire. “Pechino è l’ultimo rifugio dello sconosciuto e del meraviglioso che esista al mondo”, scriveva Pierre Loti nel 1900. Fra il 1900 e il 1901 si svolse una serie di poco note operazioni militari, che videro anche i militari italiani impegnati in Cina per contrastare una pericolosa rivolta xenofoba locale. Per comprendere come possa essere maturato all’interno della Cina un movimento di così vasta portata, occorre un ripensamento storico sulle vicende e sulla mentalità del popolo cinese. La Cina era da tempo assai chiusa nei confronti degli stranieri, a causa di una precisa scelta di isolamento della dinastia Manciù, sul trono dal 1644. Il cinese stesso, forte della millenaria antichità della sua civiltà, nota in tutto il mondo per la saggezza di cui era portatrice, poteva provare soltanto diffidenza nei confronti di uomini di una qualsiasi altra nazione. I primi europei che tentarono l’avventura commerciale nel paese, pertanto, venivano accolti come esseri inferiori, e come tali privi di certi diritti, quali per esempio il potere montare un cavallo. Per un astuto mercante, tuttavia, non era difficile adeguarsi alla mentalità corrente e sfruttarla a proprio vantaggio, assecondando coloro che sarebbero potuti diventare fonte di guadagno: il presidente della Compagnia delle Indie, John Russel, scrivendo all’imperatore non aveva alcuna remora a definirsi “un minuscolo granello di sabbia”. Ad aumentare l’odio verso gli stranieri fu l’indiscriminato commercio dell’oppio. Già il vicerè Lui Tse-hsu scriveva alla regina Vittoria queste dure parole: «Se voi inglesi ammettete che la droga è tanto deleteria, come potete poi pensare di mettere d’accordo con i decreti del cielo i guadagni che fate esponendo gli altri al suo potere malefico?». Nel 1840 un carico di oppio proveniente dalla Gran Bretagna venne distrutto in segno di protesta, e per tutta risposta gli inglesi cannoneggiarono Nanchino e occuparono militarmente Hong-Kong. Negli anni a seguire, non mancarono ulteriori occasioni per drammatiche prove di forza ed attacchi militari da parte degli europei: nel 1856 la rivolta dei musulmani determinò ancora una volta l’intervento anglo-francese, che si risolse nel saccheggio del palazzo d’Estate a Pechino. Un nuovo trattato istituì, nelle principali città, dei quartieri europei facenti capo alle varie ambasciate, che sulla scorta dei Regolamenti territoriali del 1869 presero ad imporre tasse e ad assumere direttamente il controllo dei servizi sanitari e delle forze dell’ordine, guadagnando la più completa autonomia dal governo cinese. Già prima del 1880, a Shangai il quartiere internazionale si era trasformato in una piccola città-stato indipendente dalla Cina, in grado di istituire persino tribunali propri. L’occasione per un tentativo di effettiva spartizione colonialistica della Cina, però, fu data agli europei allorquando il primo ministro cinese si rivolse a loro per ottenere aiuto contro i giapponesi, i quali dal 1894 avevano inviato soldati a Seul ufficialmente con il pretesto di proteggere la loro ambasciata, ma con la precisa intenzione – subito attuata – di occupare la città. Il 1° agosto era stata perciò dichiarata la guerra, e i cinesi, ben presto sconfitti, avevano dovuto cedere al Giappone Formosa, la Corea e la penisola del Liao-Tung. Proprio nel tentativo di ridurre le ingerenze e le pretese giapponesi, la Cina aveva fatto appello ai russi, ai francesi e ai tedeschi affinché facessero pressioni diplomatiche su Tokio. Il fatto poi che, in cambio di questo interessamento, fosse stato permesso allo zar di prolungare la Transiberiana sino a Port Arthur, rinvigorì le mire espansionistiche delle altre potenze, che cominciarono a reclamare la loro parte, spesso con l’intervento dell’esercito: la Francia riuscì così a strappare l’influenza su alcune zone sud-occidentali; la Germania ebbe la cessione delle baie di Kiao-Chow e Tsing-Tao, strappate con la forza in seguito all’uccisione di due missionari tedeschi, ed ebbero il diritto di sfruttamento delle miniere dello Shantung (la regione -si badi- in cui fecero la loro prima comparsa i boxers); gli inglesi ottennero in affitto per venticinque anni il porto di Wei-bai, antistante a Port Arthur. Unici esclusi furono l’Italia – l’unico paese di fronte alle cui richieste di concessione della baia di San-men la corte imperiale aveva avuto il coraggio di opporre un fermo e sprezzante rifiuto – e gli Stati Uniti, che però favorirono egualmente del regime “della porta aperta”. Complessivamente, tredici delle diciotto province della Cina erano gravate da pesanti diritti di occupazione.
Questa forte ingerenza determinò l’introduzione nel paese di alcuni progressi tecnici forieri di conseguenze per l’economia e la cultura cinese: basti ricordare che la ferrovia che collegava Pechino a Tientsin, una volta messa in funzione, mandò sul lastrico gli esercenti dei tradizionali mezzi di trasporto (carretti e traghetti), mentre le estrazioni minerarie davano l’impressione di uno sventramento sacrilego della terra. Tutto ciò si aggiungeva drammaticamente a un quadro economico già poco felice, che vedeva i cinesi reduci da due raccolti mancati (con il conseguente aumento dei prezzi e la denutrizione della popolazione più povera), nonché da un’ondata devastatrice di cavallette e da uno straripamento del Fiume Giallo. E la colpa di ciò veniva comunemente attribuita alle diavolerie tecnologiche degli europei. Diveniva facile in queste condizioni, per il ceto dirigente conservatore dei mandarini, a quell’epoca già in fase di piena decadenza, fare confluire il rancore della popolazione verso gli stranieri e verso quel nuovo ceto di commercianti che si andava arricchendo in margine ai traffici degli europei. Ancora più atavica, però, era la questione religiosa. L’opera di penetrazione cattolica in Cina era incominciata agli albori del Seicento, per iniziativa soprattutto dei gesuiti, la cui figura più rappresentativa fu quella di padre Matteo Ricci, un versatile teologo che aveva intuito che la strada da seguire non era affatto quella di proporre una rapida e radicale conversione – i cinesi erano assai suscettibili in materia – ma che occorreva invece sovrapporre il cattolicesimo alla millenaria cultura orientale, lentamente e con molta pazienza, attraverso la non facile via della diplomazia. Così, il culto degli antenati e la dottrina confuciana vennero dichiarati compatibili con il cristianesimo, e fu concesso altresì di designare Dio con i nomi delle diverse divinità locali. Inoltre, p. Ricci operò attivamente per ingraziarsi la corte, accettando di buon grado dall’imperatore incarichi culturali ufficiali, soprattutto nell’ambito degli studi di scienze matematiche e astronomiche, nelle quali i gesuiti eccellevano. Fatto sta, comunque, che a metà Seicento v’erano già in Cina almeno 30.000 cristiani, saliti a 200.000 intorno al 1900. Ben presto, la presenza dei religiosi era divenuta un ulteriore motivo di ostilità da parte della popolazione locale. Agli albori del Settecento, infatti, altri ordini religiosi si erano affiancati ai gesuiti: francescani, domenicani e lazzariti, già ben noti per la loro intransigenza dogmatica. Nell’erronea convinzione di accelerare il processo di conversione, gli esponenti di questi ordini – dietro impulso anche del papa Benedetto XIV – accesero ben presto infuocate dispute teologiche, per dimostrare che vi è un solo termine per designare Dio e che Confucio non ha nulla a che spartire con il cristianesimo. L’imperatore, a questo punto, non poteva più accettare un tale affronto alle tradizioni locali e alla sua autorità: avvenne così che i gesuiti furono espulsi dal paese più volte nel corso del secolo XVIII, sino a quando nel 1874 il cristianesimo venne abolito in tutta la Cina. L’odio della popolazione nei confronti dei missionari bianchi andava aumentando sempre più, per il potere che essi erano riusciti a ritagliarsi a corte e per il prestigio e l’autorevolezza di cui godevano presso i governi locali, ma anche in quanto causa diretta del distacco dei cinesi convertiti dalle comunità di appartenenza. A quel tempo le società segrete erano in Cina estremamente diffuse. D’altra parte, associarsi era per il cinese uno dei modi più efficaci per difendersi dalle vessazioni delle autorità e dei notabili locali: esistevano associazioni di commercianti come di contadini, di artigiani come di ladri; ed esistevano anche società di pugilatori che praticavano l’arte del combattimento non soltanto per la difesa personale, ma anche ai fini dell’addestramento militare e come filosofia di vita. Una delle sette più forti e note era verso la fine dell’Ottocento quella degli I H’o t’uan (letteralmente «dei Pugni giusti ed armoniosi»), che aveva uno spiccato carattere politico-religioso, e i cui appartenenti venivano comunemente chiamati dagli inglesi boxers, per il loro estroso modo di praticare le arti marziali, che faceva ricordare agli europei le movenze dei cultori della “nobile arte”. Politicamente, questi individui odiavano la regnante dinastia Manciù altrettanto quanto detestavano i “diavoli europei”, dei quali si proponevano lo sterminio; e non erano esenti dalla loro ostilità neppure i cinesi convertiti – ai quali guardavano con il rancore che si prova nei confronti dei traditori della patria – e coloro che, in una qualunque maniera, collaboravano con gli europei. I boxers mettevano in opera un oscuro rituale, consistente in una formula magica sussurrata in stato di trance, accompagnata da convulsioni e da schiuma alla bocca, attraverso la quale gli adepti ritenevano di mettersi sotto la protezione di spiriti magici, eroi e semidei, che garantivano loro l’invulnerabilità ai colpi di qualsiasi arma, anche da fuoco, e li rendevano immuni dall’annegamento. Per la folla che assisteva allo spettacolo offerto in occasione di pubbliche dimostrazioni, era più facile pensare che la loro straordinaria abilità derivasse da pratiche magiche anziché – come è più probabile – da lunghi e faticosi allenamenti. Il boxer era convinto di essere in grado di chiamare dentro di sé una divinità che lo rendeva in grado di comandare ai venti e alle piogge, di provocare incendi, di resistere ai colpi dei fucili (o di farli inceppare) e di far allentare gli ingranaggi e le viti dei cannoni nemici.
I boxers si distinguevano per l’abitudine di portare una fascia rossa alla vita, un fazzoletto alla testa, polsi e caviglie fasciati sempre del medesimo colore rosso, simbolo di potenza e di invulnerabilità A tale setta venivano ammesse anche le donne, divise nei gruppi delle Lanterne Rosse (le ragazze di età compresa fra i 12 e i 18 anni) e delle Lanterne Blu e Verdi (che comprendevano le donne più mature); alla loro guida era la Madre Sacra del Loto Giallo, una santona ritenuta onnipotente e capace di qualsiasi diavoleria. Ciò che richiamava i giovani, che si univano entusiasticamente ai pugilatori, era però soprattutto la convinzione di potere dominare i fenomeni della natura e di garantirsi l’invulnerabilità. In tal senso, la pratica assidua delle arti marziali – con le particolari tecniche di respirazione e quel sottile senso di superiorità determinato dalla potenza combattiva – unita alla cieca fiducia negli amuleti, nelle formule esoteriche, nell’astinenza da taluni cibi, nelle capacità medianiche e in certi distillati di erbe, contribuiva a rafforzare la credibilità di queste superstizioni. Il mito della invulnerabilità, peraltro, fu comune a molte delle popolazioni meno progredite che in quel periodo si trovarono ad affrontare gli eserciti europei, giacché l’inferiorità tecnologica e militare doveva pur trovare compensazione nel soprannaturale se si voleva continuare a confidare nella possibilità di evitare la colonizzazione. E tale mito fu in quello scorcio di secolo così duro da scalfire che molti cinesi, pur di fronte a mucchi di cadaveri di boxers, erano certi che essi sarebbero misteriosamente tornati in vita nottetempo (mentre, in caso contrario, si sarebbe avuta la conferma che non erano boxers).
Il movimento si sviluppò soprattutto nella Cina del nord, dove l’invadenza dei commercianti e dei missionari europei era maggiormente sentita. I rapporti con le autorità furono dapprincipio improntati ad una reciproca diffidenza e ostilità; mentre poi, quando la corrente politica conservatrice e xenofoba capeggiata dell’imperatrice Tsu-hsi e dal principe Touan prevalse su quella riformista del principe Cing, il movimento dei boxers prese progressivamente ad accostarsi alla dinastia Manciù (che pure odiava). Tsu-hsi era una sanguinaria, capace delle peggiori efferatezze: dedita soltanto alla ricerca del potere personale, alla morte del marito prima aveva fatto morire di stenti il figlio (di cui era reggente), poi aveva fatto dichiarare pazzo e rinchiudere in manicomio il nipote, divenendo di fatto imperatrice. In questo contesto di lotta politica, in cui non si capiva neppure più che erano gli amici e chi i nemici, non è privo di significato il fatto che il generale Yuan-Shih-Kai, inviato al nord per sedare i facinorosi, venisse di punto in bianco richiamato indietro dal governo cinese, mentre al contempo alcuni governatori provinciali che stavano approntando severe misure di repressione contro i boxers fossero rimossi dall’incarico. Il motivo di questo avvicinamento deve forse essere individuato nel tentativo, da parte dell’imperatrice, di convogliare la violenza dei boxers verso gli stranieri; cosicché l’ostilità di questi ultimi nei confronti della corte non venne in effetti mai meno, ma si attenuò nell’attesa di sbarazzarsi degli stranieri per poi rivoltarsi successivamente contro la dinastia Manciù.
Le azioni dei boxers ai danni dei cinesi convertiti e dei missionari si facevano a poco a poco sempre più audaci e violente: intere strade ferrate e linee telegrafiche venivano distrutte, mentre le autorità appoggiavano il movimento più o meno sfacciatamente, e l’esercito regolare se ne stava alla finestra a guardare, indeciso sul da farsi ma – almeno spiritualmente – dalla parte dei rivoluzionari. «Quello che nessun europeo aveva previsto – avrebbe scritto Sir Claude MacDonald – era che il governo cinese sarebbe stato talmente influenzato dalle presunte forze soprannaturali dei boxers da credere che essi avrebbero potuto sfidare il resto del mondo senza correre alcun pericolo».
Il 17 giugno 1900 l’esercito regolare cinese permise ai boxers di entrare in Pechino – da cui essi erano stati sino a quel momento interdetti per motivi di ordine pubblico -, rendendo così pienamente manifesto l’appoggio della corte imperiale al movimento xenofobo. La sera del 19 l’imperatrice inviò un legato a comunicare che gli stranieri avrebbero dovuto traslocare tutti a Tientsin entro le ore 16 del giorno seguente, per non ben precisati motivi di sicurezza. Si trattava di un ultimatum inaccettabile, considerato che l’esercito imperiale che avrebbe dovuto fornire la protezione necessaria al trasferimento era già passato ai rivoltosi, e che proprio a Tientsin l’esercito stesso aveva assalito la colonia francese con l’ordine di uccidere tutti i bianchi. I rappresentanti delle potenze- mondiali in Cina avevano però già da tempo avuto chiari segnali dell’imminente tragedia: il 31 dicembre precedente, di fronte all’assassinio del reverendo Brooks, l’imperatrice aveva assicurato che i responsabili sarebbero stati puniti, ma già il giorno successivo circolavano per Pechino manifesti inneggianti alla insurrezione; nella cittadina di Pas-Tui, inoltre, erano stati uccisi ottocento cinesi cristiani. Gli ambasciatori avevano perciò colpevolmente sottovalutato lo stato di fatto: una fatale miscela di ottimismo sfrenato, di fiducia nella autorità dei propri governi presso la corte imperiale e di affidamento nella mansuetudine degli orientali, impediva ai ministri di rendersi conto della gravità della situazione, difficile da percepire anche a causa della rigorosa separazione della comunità europea da quella cinese. Più di tanti eccidi, fu invece l’incendio della tribuna d’onore all’ippodromo a fare loro aprire gli occhi: alle navi da guerra che si trovavano in quella zona (tra le quali vi erano due navi italiane, l’Elba e la Calabria), era stato perciò dato troppo tardi l’ordine di riunirsi nella baia di Taku, di fronte a Tientsin, a disposizione delle rispettive ambasciate. Dalle navi era stato sbarcato un contingente d’emergenza formato da 426 marinai di diverse nazionalità, e posto a difesa del quartiere delle legazioni a Pechino. Tale quartiere comprendeva al suo interno le legazioni dei vari paesi (per lo più ravvicinate tra loro – eccezion fatta per quella austriaca e quella italiana – a formare una sorta di quadrilatero irregolare), edifici pubblici cinesi (tra i quali la sede delle Dogane), palazzi della nobiltà locale, negozi e attività commerciali, fra le quali un albergo e la banca; il lato sud era chiuso dalla muraglia della città tartara.
In seguito alle pressanti richieste di aiuto da parte dei diplomatici, il 10 giugno era partita da Tientsin, dove si trovava la squadra navale, una colonna di duemila fucilieri di marina di diverse nazionalità – comprendente pure quarantadue italiani sbarcati dalla R. Nave Calabria (cinque dei quali non fecero più ritorno in patria) – al comando dell’Ammiraglio inglese Sir Edward Seymour. Pechino distava circa 130 km, e Seymour decise di servirsi di un convoglio ferroviario: e pensò male, perché le truppe regolari cinesi (oramai alleate dei boxers) avevano fatto saltare diversi tratti di strada ferrata, bloccando la colonna e costringendo alfine l’Ammiraglio a tentare un rientro fortunoso a Tientsin, via fiume con l’aiuto di giunche, dopo sette giorni occupati a contrastare gli attacchi guerriglieri provenienti dalla campagna. Seymour e il suo stato maggiore avevano dato l’operazione per già fatta e conclusa, tanto avevano sottovalutato il nemico, nella convinzione – come ebbe a scrivere lo Spectator – «che qualsiasi forza europea, comunque piccola, possa battere qualsiasi forza cinese comunque grande». La sera dell’11, i carri mandati alla stazione della capitale ad accogliere i soldati della colonna che avrebbe dovuto liberare il quartiere delle legazioni, erano tornati vuoti. Se l’Ammiraglio avesse proseguito a piedi, forse sarebbe giunto a Pechino in soli due giorni. Le uniche notizie che a Pechino si ebbero di lui, invece, furono alcuni suoi ottimistici biglietti, che gli guadagnarono il soprannome di See-no-more («Non- lo-vedi-più»).
La conferma che le voci di una rivolta imminente erano fondate era giunta il 13 giugno, quando la capitale era stata messa a fuoco da un gruppo di facinorosi, e centinaia di cinesi convertiti, donne e bambini erano stati fatti a pezzi e mutilati. Due giorni prima, il cancelliere della Legazione giapponese Sugiyama era stato linciato per la strada, e il suo cuore estirpato era stato inviato in dono a un generale cinese. Proprio per questo, poiché oramai erano già chiare le intenzioni della corte, al ricevimento dell’ultimatum l’ambasciatore tedesco barone Von Ketteler, ben conosciuto per la sua intolleranza e per i modi violenti, ritenne di recarsi a corte per esigere spiegazioni, e costringere finalmente l’imperatrice a mettere le carte in tavola: durante il tragitto, fu però assassinato sulla sua portantina, e gli vennero strappati gli occhi. Mentre i soldati tedeschi per rappresaglia devastavano il palazzo ove risiedeva l’ufficio affari esteri del governo cinese, gli altri ambasciatori capivano che oramai non v’era più alcuna speranza di contare sulla diplomazia e sull’autorevolezza delle potenze da loro rappresentate. Alle ore 16 del 20 giugno i cinesi, come promesso, attaccarono le legazioni scontrandosi col reparto multinazionale già apprestato a difesa. L’indomani la Cina dichiarava guerra a tutte le nazioni rappresentate nel quartiere delle legazioni: Gran Bretagna, Germania, Spagna, Belgio, Russia, Austria, Francia, Italia, Olanda, Giappone e Stati Uniti. Si trattò indubbiamente di un gesto inconsulto, dovuto allo stato di confusionale incoscienza di cui erano preda le massime autorità cinesi a cominciare dalla sclerotica imperatrice Tsu-Shi. Nel quartiere delle legazioni si erano in precedenza rifugiati i bianchi residenti a Pechino e molti cinesi convertiti, complessivamente tremila persone. L’ambasciatore inglese Sir Claude Mac Donald si occupava del coordinamento politico-diplomatico, mentre l’austriaco von Thomann, comandante della Nave Zenta, in qualità di ufficiale più alto in grado si era posto al comando del contingente multinazionale. La resistenza all’assedio non presentava, apparentemente, troppe difficoltà: il cibo era garantito dallo stabilimento di un fornito albergatore svizzero e dai cavalli presenti in grande quantità, diversi pozzi scavati nei giardini fornivano l’acqua, e, per i bambini e gli ammalati, una mucca provvedeva quotidianamente al latte. Difettavano invece i medicinali e le munizioni, soprattutto agli italiani e ai giapponesi che disponevano di un centinaio di colpi per fucile (peraltro l’utilizzo di armi diverse per ogni nazionalità non permetteva neppure di costituire una riserva comune); il pezzo più grosso a disposizione era un cannoncino italiano da 37 mm. Per le strade, intanto, divampava la violenza: l’imperatrice era giunta perfino ad offrire cinquanta, quaranta e trenta taels per ogni testa di bianco, a seconda se uomo donna o bambino; mentre la testa mozzata del professor James faceva già bella mostra di sé in una gabbietta collocata sull’architrave della porta Tuanh-Ugan. Poco prima dell’assalto alle legazioni era stata attaccata pure la cattedrale cattolica del quartiere di Peitang, dove si erano rifugiate 3500 persone (bambini in altissima percentuale), difese da un gruppo di soli dieci marinai italiani al comando del S. Ten. di Vascello Angelo Olivieri, e di trentatrè francesi comandati dal S. Ten. di Vascello Henry. All’interno del quartiere assediato si trovavano, oltre alla cattedrale, anche la casa del vescovo Favier, un orfanotrofio, un convento, un ambulatorio, diverse scuole e attività commerciali. Il 25 giugno il governo cinese dichiarò cessate le ostilità, ma gli ambasciatori non si fidarono, e a ragion veduta fecero raddoppiare la guardia; durante la notte i cinesi attaccarono in massa da tre lati, senza però riuscire nel loro intento. Anche per le navi ancorate nella baia di Taku non tirava buon vento: erano rimaste con poco personale – il minimo indispensabile per effettuare le manovre di bordo – ed erano tenute sotto tiro da una fila di quattro muniti forti cinesi posti all’imboccatura del fiume. Senza contare che i comandanti si trovavano nella infelice posizione di dovere prendere delicate decisioni, anche di natura politica, nella impossibilità di ricevere ordini dai rispettivi governi: la notte fra il 16 e il 17, con nove piccole navi – le sole che potessero inoltrarsi nella secca del porto – gli europei riuscirono ad impossessarsi dei forti, garantendosi, con il controllo di Taku, la possibilità di rifornire la colonna Seymour e, di conseguenza, di portare soccorso alle legazioni a Pechino. A Tientsin, con la consueta quanto inspiegabile lentezza, si procedeva alla formazione una nuova colonna al comando del generale inglese Alfred Gasalee, per liberare il quartiere delle legazioni: essa era composta da circa 17.000 uomini tra francesi, inglesi, americani, russi, tedeschi, giapponesi, austriaci e italiani (35 uomini, questi ultimi, al comando del S. Ten. Vascello Giuseppe Siriani). La marcia verso Pechino – che si sperava non avrebbe avuto medesima sorte della colonna Seymour – dopo alcuni tentennamenti fu intrapresa il 4 agosto. Gli assediati nella capitale, intanto, se la stavano vedendo male. I boxers infatti, coordinati da ufficiali dell’esercito regolare, avevano iniziato ad adottare tattiche meno confuse; il governo cinese li stipendiava come normali soldati e li aveva equipaggiati con antiquati cannoncini e alcuni Krupp, che per fortuna il comandante in capo, Gen. Jung-Lu, non permise – almeno in un primo momento – di usare, al fine di evitare una inutile strage. E, ad onore del vero, non erano veramente pochi neppure i governatori provinciali e i comandanti militari che si rifiutarono di obbedire agli ordini della vecchia Tsu-Hsi. Quest’ultima peraltro, per cercare di confondere gli ambasciatori e l’opinione pubblica internazionale, aveva anche stipulato una tregua e fatto giungere alle legazioni carretti carichi di cibo e di frutta fresca, come dono personale, in segno di (falsa) amicizia e per alleviare i disagi della guerra: un comportamento molto ambiguo, che mirava soltanto a confondere le acque al tavolo delle trattative di pace che si sarebbe necessariamente aperto di lì a poco tempo, e dove il governo cinese avrebbe poi sempre proclamato la propria completa estraneità al movimento xenofobo. La resistenza degli europei all’interno del quartiere vide alcuni momenti particolarmente drammatici. Uno fu quando il comandante militare von Thomann, nel timore di essere preso da più lati, abbandonò la legazione austriaca, causando anche l’involontaria ritirata degli italiani, che si trovavano a quel punto a rischiare l’accerchiamento. L’ambasciatore Mac Donald lo rilevò dal comando, incaricandosene egli stesso, e l’austriaco, per cancellare l’onta subita, chiese e ottenne di potere combattere negli avamposti, dove rimase ucciso qualche giorno prima della liberazione. Gli italiani, al comando del S. Ten. Vascello Federico Paolini, svolsero dapprima servizio di pattugliamento in difesa della nostra ambasciata; poi, quando questa cadde nelle mani dei rivoltosi, furono assegnati al colonnello giapponese Shiba per occuparsi, assieme ai suoi uomini, della difesa del settore settentrionale. Con il passare – lento ed inesorabile – dei giorni, gli assediati al quartiere delle legazioni stavano finendo il cibo, ed avevano oramai perduto ogni speranza di salvezza, giacché le linee telegrafiche erano state interrotte e, benché un soldato fosse riuscito ad uscire da Pechino, nessuno poteva sapere che era poi giunto sino a Tientsin per richiedere un sollecito intervento. Per di più i rivoltosi, messe le mani sui Krupp, avevano preso a sparare indiscriminatamente. Gli uomini di Olivieri e di Henry, asseragliati nella cattedrale, resistevano appena, minacciati per di più da un nuovo tranello che i cinesi andavano preparando loro: una serie di gallerie minate proprio al di sotto delle fondamenta dell’edificio, che con le varie esplosioni provocarono oltre 150 morti, e che avrebbero completamente distrutto i palazzi in cui stavano gli europei se i francesi e i giapponesi della colonna Gasalee – come vedremo tra poco – non fossero giunti in tempo. Nonostante alcune rapide battaglie, combattute con successo nelle città di Peitsang (5 agosto), Yangtsun (il 6) e Tungciad (il 12), la marcia dei soccorritori procedette a rilento, per la difficoltà d’impiego dei pochi cavalli e ponies di cui disponevano gli europei, e per le controversie che continuamente sorgevano fra gli ufficiali delle massime potenze: il generale Frey, comandante dei francesi, ebbe a scrivere che si trattò di una campagna improvvisata, combattuta da un esercito che parlava lingue diverse ed era composto piuttosto da bande che da reparti militarmente organizzati. Nel corso della marcia, una volta esaurite le forze e i mezzi, i contingenti francese, tedesco, austriaco e italiano dovettero fermarsi e rientrare a Tientsin, per poi rimettersi nuovamente in cammino sotto il comando del gen. Frey ad inseguire penosamente, a tappe forzate, il grosso della spedizione.
Il 14 agosto la colonna Gasalee – con in testa i cosacchi del generale Wassilewsky e i feroci sikh britannici impegnati nel tentativo di battersi reciprocamente sul tempo, e inseguita a ruota dal contingente del gen. Frey – entrò finalmente in Pechino. E avvenne allora lo scontro decisivo, nel quale tanto gli alleati quanto i boxers giocarono il tutto per tutto: e persino i diplomatici, compresa la gravità del frangente, si gettarono nella mischia con le poche armi rimaste. I rivoltosi dopo qualche ora furono sopraffatti, e gli indiani del reggimento britannico liberarono il quartiere. Gli uomini asserragliati nella cattedrale furono liberati soltanto il 16 agosto. Erano stretti d’assedio dal 15 giugno, e su di loro erano stati sparati oltre 2500 proiettili: un’enormità, rispetto ai 3000 sparati contro le legazioni, che però si estendevano su un perimetro di molto superiore. Alla cattedrale i liberatori giunsero inspiegabilmente soltanto due giorni dopo, quando i bombardamenti stavano oramai cessando per ordine dell’imperatrice che, del tutto rimbambita, continuava a lamentarsi dell’assordante rumore degli spari. Poi la :vecchia si ritirò nella “stanza dei piaceri”, dove fu avvisata dagli eunuchi che i boxers erano in rotta. Tsu-hsi non perse. tempo e, fatti caricare gli scrigni in cui erano contenuti i suoi taels d’oro su un carro, e indossati abiti contadini, si fece condurre fuori del palazzo, per tentare la fuga assieme all’imperatore legittimo: a Pechino sarebbe ritornata soltanto più tardi. Tre giorni dopo giunsero fortunosamente nella capitale anche tedeschi, austriaci e italiani. Il Corpo di spedizione inviato dall’Italia era comandato dal Colonnello Vincenzo Garioni, titolare del 24° Reggimento fanteria, e si componeva di:
  • un Battaglione di fanteria, comandato dal Ten. Col. f.(alp.) Tommaso Salsa, costituito da quattro     compagnie fornite da altrettanti Reggimenti (la 10a dell’8° Rgt. “Cuneo”, la 10a del 41° Rgt. “Modena”, la 6a del 43° Rgt “Forlì” e la 12a del 69° Rgt. “Ancona”);
  • un Battaglione Bersaglieri “Estremo Oriente”, comandato dal Magg. f.(b) Luigi Agliardi (un      ufficiale proveniente dal 5° Bersaglieri), composto da quattro compagnie, una fornita dai Reggimenti 5° e 9° (di stanza rispettivamente a Roma e a Livorno) che avevano pure approntato lo Stato Maggiore del Corpo, una dai Reggimenti 8° e 1 ° (di stanza a Napoli e a Palermo), una dai Reggimenti 4° e 11° (di stanza a Bologna e ad Ancona) e una dai Reggimenti 2° e 6° (di stanza a Milano e a Verona);
  • una batteria mitragliatrici, con quattro Gardener e personale d’artiglieria, comandata dal Cap. a. Alcide Vallauri;
  • un distaccamento misto del Genio su tre drappelli (zappatori, pontieri e telegrafisti ottici)      provenienti dal 1° e dal 3° Reggimento, comandato dal Ten. g. Vito Modugno;
  • un ospedaletto da campo con cinque letti;
  • un drappello sussistenza con quattro forni mobili in ferro;
  • un drappello di Reali Carabinieri (un maresciallo, un vice-brigadiere e sei militi) alle dirette      dipendenze del Comando (va ricordato che alcuni di questi carabinieri rimasero successivamente a presidio della nostra concessione anche dopo il rientro in patria del contingente).
Il Corpo di Spedizione italiano contava dunque, in tutto, 83 ufficiali, 1882 fra sottufficiali e truppa, 178 quadrupedi. Si era cercato di preferire, nei limiti del possibile, il reclutamento volontario, al fine di disporre di soldati entusiasti dell’impresa e motivati di fronte ai rischi (per quanto una tale eterogeneità avrebbe influito negativamente sulla efficienza operativa). Mentre il Corpo si approntava, peraltro, era già partito alla volta della Cina l’Incrociatore «Fieramosca», con due compagnie da sbarco della R. Marina e l’ammiraglio Candiani a bordo; seguivano a ruota il «Vesuvio» – purtroppo subito caduto in avaria – e il «Vittor Pisani», anch’esso carico di due compagnie da sbarco. Il 16 luglio iniziò a Napoli il carico dei soldati sui piroscafi «Minghetti», «Giava» e «Singapore», e le operazioni d’imbarco terminarono la sera del 19 in fretta e furia, per quanto l’imbarco completo fosse stato programmato per il giorno successivo. Per il soverchio carico (le 500 tonnellate previste per ciascun piroscafo erano divenute più del doppio) furono lasciati a terra materiali e 36 muli. All’ultimo momento fu scoperto pure un clandestino: un sergente dei bersaglieri desideroso di prendere parte all’impresa pur non essendo stato prescelto; qualche storia dei bersaglieri racconta anche che non pochi fanti piumati, al momento dell’estrazione dei nomi dei soldati da fare partire, bararono per essere sicuri di salire a bordo.
Alla mattina Umberto I – che pochi giorni dopo avrebbe perso la vita a Monza nell’attentato ordito dall’anarchico Bresci – aveva passato in rassegna i reparti, e ancora sul far della sera, alla partenza dei piroscafi (scortati dalla R. Nave «Stromboli») salutava i soldati a bordo di una lancia.
La truppa poteva contare su un soprassoldo di 40 centesimi, che saliva a 2 lire per i sottufficiali e a oltre 8 lire per gli ufficiali. La razione viveri prevedeva 750 g di pane, 375 g di carne, 125 g di riso o pasta, 15 g di caffè, 20 g di zucchero, 20 di sale, 0,5 g di pepe e 15 g di lardo. L’uniforme si componeva di divisa in tela (scadente e confezionata frettolosamente), elmetto di sughero coloniale e stivaletti: un vestiario pesante e ingombrante, pensato per fare magari la campagna in Africa, ma poco adatto al rigido clima cinese, che in alcune regioni del nord raggiunge persino i 20° sotto zero. Fortunatamente la tenacia del soldato italiano – unita all’oramai proverbiale “arte di arrangiarsi” – riuscì a supplire parzialmente alla stupidità degli alti comandi. Mancavano pure – incredibilmente – i mezzi di trasporto terrestri. E il 7 marzo 1901 Luigi Barzini, l’inviato del Corriere della Sera, ebbe a scrivere: «È un vero peccato che questi eroici giovanotti si sentano ridicoli e avviliti. Non si può andare all’assalto coperti di palandrane cinesi di tela variopinta messe solo per non morire di freddo». E aggiungeva poi che, al momento dello sbarco, i militari si erano ritrovati con una brutta sorpresa: i viveri, conservati in sacchi di tela, erano andati a male, e i materiali si erano arrugginiti; inoltre si era scatenata una violenta epidemia, propagatasi ben presto fra gli uomini ammassati come sacchi di patate per la mancanza di spazio: Era il colmo dell’incapacità organizzativa, ma il Colonnello Garioni e i suoi uomini seppero sopportare anche questo: peccato soltanto che queste deficienze logistiche avrebbero nel tempo rappresentato la costante di buona parte delle operazioni militari condotte dal nostro Paese. Le stragi non si conclusero, purtroppo, con la Liberazione del quartiere europeo a Pechino. Si può dire anzi che s’intensificarono proprio allora, poiché i soldati europei dettero avvio ad una cruenta e spietata opera di repressione, che coinvolse anche molti innocenti. Bastava infatti una delazione per mandare chiunque di fronte al plotone d’esecuzione; e avveniva così che spesso e volentieri la follia omicida – questa volta degli europei – veniva rivolta dai cinesi contro i loro nemici personali. A esacerbare questo stato di cose aveva senz’ altro contribuito la notizia, pubblicata nei giorni precedenti l’imbarco, dal «Daily mail» londinese, che la resistenza nel quartiere aveva ceduto, e che i diplomatici erano stati barbaramente trucidati. L’opinione pubblica era rimasta sconvolta, ed era aumentata la rabbia nel cuore dei soldati, soprattutto di quelli tedeschi, che il Kaiser stesso aveva esortato a ripagare i cinesi con la medesima loro moneta, facendo impallidire il ricordo di Attila. Sopraggiungevano intanto i contingenti inviati dai vari paesi, che da Taku guadagnavano Tientsin per recarsi all’appuntamento con gli “alleati” e con la gloria. Il corpo di spedizione italiano, al comando del Col. Garioni, giunse il 29 agosto 1900: era partito – come abbiamo detto – la sera del 19 luglio, da Napoli; durante il viaggio aveva sostato a Porto Said (il 23 luglio), a Aden (il 29) e a Singapore (dal 12 al 14 agosto), e una volta sbarcato a Taku aveva percorso in treno i 150 chilometri che lo separavano da Pechino. Il contingente internazionale nominò il 26 settembre un comandante generale, con il compito di coordinare le operazioni dei vari corpi di spedizione: si trattava del Feldmaresciallo tedesco Albrecht Graf von Waldersee, peraltro subito contestato dai francesi e dagli americani, che lo accusarono di eccessivo autoritarismo e cercarono di rendersi quanto più possibile indipendenti dal suo comando. E non avevano ad onor del vero tutti i torti, giacché il Maresciallo Generale Mondiale (come egli stesso amava essere chiamato) non aveva altra mira se non quella di favorire sfacciatamente gli interessi economici e il prestigio del suo paese. Gli italiani accettarono invece la nomina senza discutere, anche perché un contingente così povero di uomini e di mezzi e comandato – fatto anche questo non trascurabile – da un ufficiale superiore anziché da un ufficiale generale, non avrebbe potuto certamente pretendere,di avere un qualche potere decisionale. A ciò s’aggiunga che l’Italia era tutt’altro che una grande potenza, e veniva pertanto guardata dagli alleati con una certa supponenza.
Non poche opere di divulgatori italiani evidenziano, ancora in tempi recenti, come nel quartiere affidato alla sorveglianza degli italiani non furono compiuti troppi atti criminosi, né da parte nostra né da parte cinese, per quel rapporto di relativa fiducia e di rispetto reciproco che si instaurò fra i soldati e la popolazione locale. È invece un dato di fatto che la frenesia di vendetta e di saccheggio non risparmiò purtroppo nessun contingente, e del resto sarebbe storicamente improponibile pensare che gli europei potessero provare una qualsiasi forma di considerazione – e quindi di rispetto – nei confronti di un “nemico” al quale non veniva nemmeno riconosciuta la dignità di essere tale. I cinesi venivano infatti visti come un popolo barbaro, primitivo, al quale portare la civiltà nel momento stesso in cui si affermava la supremazia geopolitica. «Ma quale civiltà stiamo portando?», si chiedeva tuttavia il tenente medico Giuseppe Messerotti Benvenuti, che era partito alla volta della Cina armato di medicinali e di una Kodak, con la quale immortalò centinaia di immagini, che sono state recentemente esposte in una mostra dedicatagli nella sua Modena: ritratti di militari in posa come in una gita scolastica si alternano a foto di decapitazioni e gogne, macerie e facce di condannati a morte. Alla retorica che per lungo tempo ha voluto il soldato italiano “buono a tutti costi”, diverso dagli altri e quasi restio ad uccidere, rispondono i rapporti dell’epoca custoditi presso l’Archivio Storico della Marina Militare e le testimonianze scritte dei protagonisti: «Erano passati giorni di tremenda paura – scriveva M. Valli – nei quali qualunque indigeno, servo o letterato che fosse, s’era inchinato umilmente all’ultimo fantaccino delle truppe internazionali. Su per il fiume, da certe giunche di Europei s’era tirato al bersaglio, per giuoco, sui cinesi che si scorgevano nelle campagne, e le acque torbide del Pei-ho avevano continuato a trascinare cadaveri per giorni e giorni. In altre occasioni s’erano riuniti in gruppi gli indigeni, condannati da un giudizio sommario, obbligati a scavarsi una grande fossa e discendervi. Erano fucilati lì dentro, a bruciapelo, senz’altro fastidio che quello di spingere dentro, sui cadaveri, la terra ammucchiata [...]. Spesso, dove sarebbe bastato uno spintone, si tirò una fucilata, e per qualche tempo in quell’atmosfera di dolore e di morte non parve delitto uccidere». Ad ogni modo, il Maresciallo von Waldersee – che fu testimone della maggiori stragi pur senza combattere una sola battaglia – ebbe a dichiarare: «In tutte le innumerevoli esecuzioni che furono compiute sotto ai miei occhi, non vidi mai un cinese mostrare il minimo segno di paura o di emozione». Ai nostri vennero affidate diverse missioni per smorzare le ultime resistenze all’interno della Cina. Ricordiamo quella del 2 settembre, consistente nell’espugnare i forti di Chan-hai-tuan: un incarico particolarmente gravoso, se si considera che già altri reparti vi si erano cimentati invano, e che nel frattempo agli assediati erano giunti due squadroni di cavalleria di rinforzo. Gli italiani annoveravano 470 uomini su tre compagnie, due di bersaglieri e una di marinai, e malgrado l’inferiorità numerica degli attaccanti il nemico fu costretto dopo tre assalti a ritirarsi, abbandonando persino le armi per correre più velocemente. In un’ altra circostanza i francesi, in segno di spregio agli ordini del Feldmaresciallo von Waldersee, avevano occupato il villaggio di Paoting-fu, che era stato affidato al controllo degli italiani e dei tedeschi, prima ancora che questi potessero giungervi. Non avevano però fatto i conti con il Col. Garioni, per nulla disposto a subire l’affronto senza reagire: così una notte, alla testa di 330 uomini, egli riuscì ad introdursi a Cunansien, una cittadina in quel momento assediata dai francesi, e ad issare il tricolore nella sua piazza principale. Purtroppo, dietro l’aneddoto si può leggere facilmente una realtà poco edificante: gli italiani erano troppo inferiori ai loro alleati per numero di uomini, uniformi ed equipaggiamento, e una delle loro preoccupazioni principali – in mezzo a tante quotidiane umiliazioni – doveva essere quella di tenere sempre alto l’onore. Ad ogni modo, neppure i nostri connazionali rinunciarono alla spartizione “autorizzata” del bottino che sistematicamente teneva dietro ai rastrellamenti: dopo l’occupazione della banca di Paoting-fu, e la confisca dell’intero suo deposito, il contingente italiano ebbe circa 26.000 dollari. Il rientro in patria delle truppe del Contingente cominciò nei primi giorni di agosto 1901. Due compagnie di bersaglieri fecero ritorno l’anno successivo, e le restanti compagnie piumate, unite in un battaglione misto, rimasero in Cina sino al 1905. L’assedio delle legazioni, durato cinquantacinque giorni, aveva fatto annoverare 66 stranieri uccisi, due adulti e sei bambini morti per cause diverse, e oltre 150 persone rimaste ferite, mentre il numero dei cinesi morti non poté essere registrato. La guerra si concluse ufficialmente con il Trattato di Pace sottoscritto, dopo faticose trattative, il 7 settembre 1901. Esso sanciva la presenza economico-militare degli europei in Cina, attraverso ulteriori privilegi commerciali e un forte stanziamento di truppe europee (che consentiva il completo controllo del quartiere delle legazioni). La Cina s’impegnava inoltre a punire i funzionari responsabili, ad erigere monumenti alla memoria degli europei uccisi, a sospendere l’arruolamento di funzionari nelle province più toccate dalla ribellione e a pagare alle potenze europee un risarcimento in denaro ammontante complessivamente a 450 milioni di dollari, che furono rateizzati nell’arco di quarant’anni, salendo così – calcolati gli interessi – a 980 milioni. Attraverso il controllo dei dazi doganali tutte le rate furono regolarmente riscosse, sino all’ultima, che venne saldata nel 1940. Inoltre, il divieto di importare armi e la distruzione dei forti di Taku misero definitivamente in ginocchio l’esercito imperiale. L’Italia ottenne la concessione di una zona di neppure 450.000 mq a Tientsin, costituita da un terreno lungo il fiume ricco di saline, un villaggio e un’ampia area paludosa nella quale gli indigeni avevano l’abitudine di seppellire i morti. Dopo un lungo periodo di disinteresse, nel quale la concessione rimase abbandonata a se stessa con gli effetti, in termini d’incuria, che vennero ripetutamente denunciati da militari italiani – fu avviata un’alacre opera di bonifica delle zone infette. Due giorni dopo l’8 settembre 1943, i giapponesi si presentarono ai militari italiani che ancora rimanevano in Cina, intimando loro la resa e facendoli prigionieri. Con il trattato di Parigi (10 febbraio 1947) le potenze occidentali fecero esplicito atto di rinuncia alle loro mire in Cina.
Per concludere, possiamo affermare che la rivolta dei boxers che inaugurò il nuovo secolo rappresentò il primo tentativo di guerra di liberazione condotta da un popolo contro i suoi dominatori occidentali. Le devastazioni, gli stermini e gli stupri furono il prodotto di una tensione fortemente patriottica – paragonabile forse a quella che animò i nostri eroi risorgimentali – volta ad emancipare il paese dall’assoggettamento politico, economico e culturale degli europei, a difendere la propria identità storica e a tentare il rilancio di un’economia che sino a quel momento era stata orientata dagli occidentali a proprio esclusivo vantaggio. Senza queste feroci ribellioni, senza le stragi e gli orrori prodotti dai moti di xenofobia, la Cina sarebbe stata probabilmente smembrata e colonizzata al pari del continente africano. In questo anelito di libertà, gli intellettuali si trovarono fianco a fianco con gli strati più bassi del popolo, e cercarono di esercitare su di loro un controllo ambiguo, ora incitando li alla ribellione, ora frenandoli di fronte alle violenze più efferate. I termini di questo confronto fra i mandarini e la massa non ci sono chiari con precisione: se gli europei poterono resistere per quasi due mesi all’interno delle legazioni assediate, lo si dovette infatti sicuramente non soltanto a quelle poche decine di soldati che sostennero eroicamente gli assalti, ma anche e soprattutto all’azione frenante dei notabili cinesi (e della stessa Imperatrice), preoccupati di dovere poi subire le conseguenze della repressione europea. Il popolo, animato da un generico e confuso odio verso tutti gli europei indistintamente (dai commercianti d’oppio alle suore), mise inconsapevolmente la propria ferocia al servizio della dinastia Manciù. «Sterminio agli stranieri – recitava una canzone d’allora – distruggete le ferrovie, demolite le navi, tagliate i fili dell’elettricità: sulle rovine di una Cina che non è nostra costruiremo la nostra Cina». È d’altro canto vero che, senza l’invadenza dei commercianti e dei missionari europei, e senza i bombardamenti delle cannoniere che li appoggiavano nella loro opera di penetrazione quando questa non era gradita, la dinastia Manciù non avrebbe forse mai consentito alla Cina di uscire da quell’isolamento che taluni hanno definito “splendido”, ma che alla lunga, impedendo al paese di inserirsi tra le nazioni progredite, lo avrebbe lasciato veramente in balia dei primi venuti. Tuttavia, il medesimo ideale di libertà e di riscossa del prestigio della Cina sarebbe stato ripreso di lì a qualche anno da Sun Yan Tsen, sfociando nel 1911 nella fondazione della Repubblica Cinese. E fu l’avvio di un rapido processo di riorganizzazione dell’economia e delle strutture sociali del paese, condotto attraverso l’intero Novecento, passando anche attraverso il regime di Mao Tse- tung. Tale evoluzione mantenne sempre una caratteristica costante, che il maoismo seppe raccogliere dalla decaduta dinastia Manciù ed usare come elemento di coesione sociale e di pulsione verso il progresso: l’emancipazione dagli europei e il riscatto delle sorti del proprio paese, convogliati in un odio xenofobo che si sta attenuando soltanto in questi ultimi anni. È significativo, a tal proposito, il fatto che il quartiere delle legazioni a Pechino fosse situato proprio nelle immediate vicinanze di un luogo che sarebbe poi stato teatro, nel corso del tempo, dapprima delle adunate di Mao, e successivamente, al principio degli anni ’90, delle drammatiche scene della contestazione pacifica degli studenti cinesi: piazza Tien An Men.