di Domenico Latino
C’era una volta, in un paese lontano, una bellissima città. Aveva
ricchi palazzi, splendidi templi, coloratissimi archi di trionfo,
magnifici giardini e migliaia di armoniose case grigie, ognuna costruita
attorno a un tranquillo cortile, tutte allineate lungo lo schema
regolare di strade e vicoli come su una scacchiera. Tutt’attorno, per
ventisei chilometri, aveva alte mura, imponenti. Le mura avevano
magnifiche porte, a guardia delle quali stavano dei leoni di pietra. Era
una città sacra, costruita sul bordo di un deserto, secondo un progetto
che era venuto direttamente dal cielo. La città aveva un magico
incantesimo. Possedeva un fascino cui era impossibile sfuggire. “Pechino
è l’ultimo rifugio dello sconosciuto e del meraviglioso che esista al
mondo”, scriveva Pierre Loti nel 1900. Fra il 1900 e il 1901 si svolse
una serie di poco note operazioni militari, che videro anche i militari
italiani impegnati in Cina per contrastare una pericolosa rivolta
xenofoba locale. Per comprendere come possa essere maturato all’interno
della Cina un movimento di così vasta portata, occorre un ripensamento
storico sulle vicende e sulla mentalità del popolo cinese. La Cina era
da tempo assai chiusa nei confronti degli stranieri, a causa di una
precisa scelta di isolamento della dinastia Manciù, sul trono dal 1644.
Il cinese stesso, forte della millenaria antichità della sua civiltà,
nota in tutto il mondo per la saggezza di cui era portatrice, poteva
provare soltanto diffidenza nei confronti di uomini di una qualsiasi
altra nazione. I primi europei che tentarono l’avventura commerciale nel
paese, pertanto, venivano accolti come esseri inferiori, e come tali
privi di certi diritti, quali per esempio il potere montare un cavallo.
Per un astuto mercante, tuttavia, non era difficile adeguarsi alla
mentalità corrente e sfruttarla a proprio vantaggio, assecondando coloro
che sarebbero potuti diventare fonte di guadagno: il presidente della
Compagnia delle Indie, John Russel, scrivendo all’imperatore non aveva
alcuna remora a definirsi “un minuscolo granello di sabbia”. Ad
aumentare l’odio verso gli stranieri fu l’indiscriminato commercio
dell’oppio. Già il vicerè Lui Tse-hsu scriveva alla regina Vittoria
queste dure parole: «Se voi inglesi ammettete che la droga è tanto
deleteria, come potete poi pensare di mettere d’accordo con i decreti
del cielo i guadagni che fate esponendo gli altri al suo potere
malefico?». Nel 1840 un carico di oppio proveniente dalla Gran Bretagna
venne distrutto in segno di protesta, e per tutta risposta gli inglesi
cannoneggiarono Nanchino e occuparono militarmente Hong-Kong. Negli anni
a seguire, non mancarono ulteriori occasioni per drammatiche prove di
forza ed attacchi militari da parte degli europei: nel 1856 la rivolta
dei musulmani determinò ancora una volta l’intervento anglo-francese,
che si risolse nel saccheggio del palazzo d’Estate a Pechino. Un nuovo
trattato istituì, nelle principali città, dei quartieri europei facenti
capo alle varie ambasciate, che sulla scorta dei Regolamenti
territoriali del 1869 presero ad imporre tasse e ad assumere
direttamente il controllo dei servizi sanitari e delle forze
dell’ordine, guadagnando la più completa autonomia dal governo cinese.
Già prima del 1880, a Shangai il quartiere internazionale si era
trasformato in una piccola città-stato indipendente dalla Cina, in grado
di istituire persino tribunali propri. L’occasione per un tentativo di
effettiva spartizione colonialistica della Cina, però, fu data agli
europei allorquando il primo ministro cinese si rivolse a loro per
ottenere aiuto contro i giapponesi, i quali dal 1894 avevano inviato
soldati a Seul ufficialmente con il pretesto di proteggere la loro
ambasciata, ma con la precisa intenzione – subito attuata – di occupare
la città. Il 1° agosto era stata perciò dichiarata la guerra, e i
cinesi, ben presto sconfitti, avevano dovuto cedere al Giappone Formosa,
la Corea e la penisola del Liao-Tung. Proprio nel tentativo di ridurre
le ingerenze e le pretese giapponesi, la Cina aveva fatto appello ai
russi, ai francesi e ai tedeschi affinché facessero pressioni
diplomatiche su Tokio. Il fatto poi che, in cambio di questo
interessamento, fosse stato permesso allo zar di prolungare la
Transiberiana sino a Port Arthur, rinvigorì le mire espansionistiche
delle altre potenze, che cominciarono a reclamare la loro parte, spesso
con l’intervento dell’esercito: la Francia riuscì così a strappare
l’influenza su alcune zone sud-occidentali; la Germania ebbe la cessione
delle baie di Kiao-Chow e Tsing-Tao, strappate con la forza in seguito
all’uccisione di due missionari tedeschi, ed ebbero il diritto di
sfruttamento delle miniere dello Shantung (la regione -si badi- in cui
fecero la loro prima comparsa i boxers); gli inglesi ottennero in
affitto per venticinque anni il porto di Wei-bai, antistante a Port
Arthur. Unici esclusi furono l’Italia – l’unico paese di fronte alle cui
richieste di concessione della baia di San-men la corte imperiale aveva
avuto il coraggio di opporre un fermo e sprezzante rifiuto – e gli
Stati Uniti, che però favorirono egualmente del regime “della porta
aperta”. Complessivamente, tredici delle diciotto province della Cina
erano gravate da pesanti diritti di occupazione.
Questa forte ingerenza determinò l’introduzione nel paese di alcuni
progressi tecnici forieri di conseguenze per l’economia e la cultura
cinese: basti ricordare che la ferrovia che collegava Pechino a
Tientsin, una volta messa in funzione, mandò sul lastrico gli esercenti
dei tradizionali mezzi di trasporto (carretti e traghetti), mentre le
estrazioni minerarie davano l’impressione di uno sventramento sacrilego
della terra. Tutto ciò si aggiungeva drammaticamente a un quadro
economico già poco felice, che vedeva i cinesi reduci da due raccolti
mancati (con il conseguente aumento dei prezzi e la denutrizione della
popolazione più povera), nonché da un’ondata devastatrice di cavallette e
da uno straripamento del Fiume Giallo. E la colpa di ciò veniva
comunemente attribuita alle diavolerie tecnologiche degli europei.
Diveniva facile in queste condizioni, per il ceto dirigente conservatore
dei mandarini, a quell’epoca già in fase di piena decadenza, fare
confluire il rancore della popolazione verso gli stranieri e verso quel
nuovo ceto di commercianti che si andava arricchendo in margine ai
traffici degli europei. Ancora più atavica, però, era la questione
religiosa. L’opera di penetrazione cattolica in Cina era incominciata
agli albori del Seicento, per iniziativa soprattutto dei gesuiti, la cui
figura più rappresentativa fu quella di padre Matteo Ricci, un
versatile teologo che aveva intuito che la strada da seguire non era
affatto quella di proporre una rapida e radicale conversione – i cinesi
erano assai suscettibili in materia – ma che occorreva invece
sovrapporre il cattolicesimo alla millenaria cultura orientale,
lentamente e con molta pazienza, attraverso la non facile via della
diplomazia. Così, il culto degli antenati e la dottrina confuciana
vennero dichiarati compatibili con il cristianesimo, e fu concesso
altresì di designare Dio con i nomi delle diverse divinità locali.
Inoltre, p. Ricci operò attivamente per ingraziarsi la corte, accettando
di buon grado dall’imperatore incarichi culturali ufficiali,
soprattutto nell’ambito degli studi di scienze matematiche e
astronomiche, nelle quali i gesuiti eccellevano. Fatto sta, comunque,
che a metà Seicento v’erano già in Cina almeno 30.000 cristiani, saliti a
200.000 intorno al 1900. Ben presto, la presenza dei religiosi era
divenuta un ulteriore motivo di ostilità da parte della popolazione
locale. Agli albori del Settecento, infatti, altri ordini religiosi si
erano affiancati ai gesuiti: francescani, domenicani e lazzariti, già
ben noti per la loro intransigenza dogmatica. Nell’erronea convinzione
di accelerare il processo di conversione, gli esponenti di questi ordini
– dietro impulso anche del papa Benedetto XIV – accesero ben presto
infuocate dispute teologiche, per dimostrare che vi è un solo termine
per designare Dio e che Confucio non ha nulla a che spartire con il
cristianesimo. L’imperatore, a questo punto, non poteva più accettare un
tale affronto alle tradizioni locali e alla sua autorità: avvenne così
che i gesuiti furono espulsi dal paese più volte nel corso del secolo
XVIII, sino a quando nel 1874 il cristianesimo venne abolito in tutta la
Cina. L’odio della popolazione nei confronti dei missionari bianchi
andava aumentando sempre più, per il potere che essi erano riusciti a
ritagliarsi a corte e per il prestigio e l’autorevolezza di cui godevano
presso i governi locali, ma anche in quanto causa diretta del distacco
dei cinesi convertiti dalle comunità di appartenenza. A quel tempo le
società segrete erano in Cina estremamente diffuse. D’altra parte,
associarsi era per il cinese uno dei modi più efficaci per difendersi
dalle vessazioni delle autorità e dei notabili locali: esistevano
associazioni di commercianti come di contadini, di artigiani come di
ladri; ed esistevano anche società di pugilatori che praticavano l’arte
del combattimento non soltanto per la difesa personale, ma anche ai fini
dell’addestramento militare e come filosofia di vita. Una delle sette
più forti e note era verso la fine dell’Ottocento quella degli I H’o
t’uan (letteralmente «dei Pugni giusti ed armoniosi»), che aveva uno
spiccato carattere politico-religioso, e i cui appartenenti venivano
comunemente chiamati dagli inglesi boxers, per il loro estroso modo di
praticare le arti marziali, che faceva ricordare agli europei le movenze
dei cultori della “nobile arte”. Politicamente, questi individui
odiavano la regnante dinastia Manciù altrettanto quanto detestavano i
“diavoli europei”, dei quali si proponevano lo sterminio; e non erano
esenti dalla loro ostilità neppure i cinesi convertiti – ai quali
guardavano con il rancore che si prova nei confronti dei traditori della
patria – e coloro che, in una qualunque maniera, collaboravano con gli
europei. I boxers mettevano in opera un oscuro rituale, consistente in
una formula magica sussurrata in stato di trance, accompagnata da
convulsioni e da schiuma alla bocca, attraverso la quale gli adepti
ritenevano di mettersi sotto la protezione di spiriti magici, eroi e
semidei, che garantivano loro l’invulnerabilità ai colpi di qualsiasi
arma, anche da fuoco, e li rendevano immuni dall’annegamento. Per la
folla che assisteva allo spettacolo offerto in occasione di pubbliche
dimostrazioni, era più facile pensare che la loro straordinaria abilità
derivasse da pratiche magiche anziché – come è più probabile – da lunghi
e faticosi allenamenti. Il boxer era convinto di essere in grado di
chiamare dentro di sé una divinità che lo rendeva in grado di comandare
ai venti e alle piogge, di provocare incendi, di resistere ai colpi dei
fucili (o di farli inceppare) e di far allentare gli ingranaggi e le
viti dei cannoni nemici.
I boxers si distinguevano per l’abitudine di portare una fascia rossa
alla vita, un fazzoletto alla testa, polsi e caviglie fasciati sempre
del medesimo colore rosso, simbolo di potenza e di invulnerabilità A
tale setta venivano ammesse anche le donne, divise nei gruppi delle
Lanterne Rosse (le ragazze di età compresa fra i 12 e i 18 anni) e delle
Lanterne Blu e Verdi (che comprendevano le donne più mature); alla loro
guida era la Madre Sacra del Loto Giallo, una santona ritenuta
onnipotente e capace di qualsiasi diavoleria. Ciò che richiamava i
giovani, che si univano entusiasticamente ai pugilatori, era però
soprattutto la convinzione di potere dominare i fenomeni della natura e
di garantirsi l’invulnerabilità. In tal senso, la pratica assidua delle
arti marziali – con le particolari tecniche di respirazione e quel
sottile senso di superiorità determinato dalla potenza combattiva –
unita alla cieca fiducia negli amuleti, nelle formule esoteriche,
nell’astinenza da taluni cibi, nelle capacità medianiche e in certi
distillati di erbe, contribuiva a rafforzare la credibilità di queste
superstizioni. Il mito della invulnerabilità, peraltro, fu comune a
molte delle popolazioni meno progredite che in quel periodo si trovarono
ad affrontare gli eserciti europei, giacché l’inferiorità tecnologica e
militare doveva pur trovare compensazione nel soprannaturale se si
voleva continuare a confidare nella possibilità di evitare la
colonizzazione. E tale mito fu in quello scorcio di secolo così duro da
scalfire che molti cinesi, pur di fronte a mucchi di cadaveri di boxers,
erano certi che essi sarebbero misteriosamente tornati in vita
nottetempo (mentre, in caso contrario, si sarebbe avuta la conferma che
non erano boxers).
Il movimento si sviluppò soprattutto nella Cina del nord, dove
l’invadenza dei commercianti e dei missionari europei era maggiormente
sentita. I rapporti con le autorità furono dapprincipio improntati ad
una reciproca diffidenza e ostilità; mentre poi, quando la corrente
politica conservatrice e xenofoba capeggiata dell’imperatrice Tsu-hsi e
dal principe Touan prevalse su quella riformista del principe Cing, il
movimento dei boxers prese progressivamente ad accostarsi alla dinastia
Manciù (che pure odiava). Tsu-hsi era una sanguinaria, capace delle
peggiori efferatezze: dedita soltanto alla ricerca del potere personale,
alla morte del marito prima aveva fatto morire di stenti il figlio (di
cui era reggente), poi aveva fatto dichiarare pazzo e rinchiudere in
manicomio il nipote, divenendo di fatto imperatrice. In questo contesto
di lotta politica, in cui non si capiva neppure più che erano gli amici e
chi i nemici, non è privo di significato il fatto che il generale
Yuan-Shih-Kai, inviato al nord per sedare i facinorosi, venisse di punto
in bianco richiamato indietro dal governo cinese, mentre al contempo
alcuni governatori provinciali che stavano approntando severe misure di
repressione contro i boxers fossero rimossi dall’incarico. Il motivo di
questo avvicinamento deve forse essere individuato nel tentativo, da
parte dell’imperatrice, di convogliare la violenza dei boxers verso gli
stranieri; cosicché l’ostilità di questi ultimi nei confronti della
corte non venne in effetti mai meno, ma si attenuò nell’attesa di
sbarazzarsi degli stranieri per poi rivoltarsi successivamente contro la
dinastia Manciù.
Le azioni dei boxers ai danni dei cinesi convertiti e dei missionari si
facevano a poco a poco sempre più audaci e violente: intere strade
ferrate e linee telegrafiche venivano distrutte, mentre le autorità
appoggiavano il movimento più o meno sfacciatamente, e l’esercito
regolare se ne stava alla finestra a guardare, indeciso sul da farsi ma –
almeno spiritualmente – dalla parte dei rivoluzionari. «Quello che
nessun europeo aveva previsto – avrebbe scritto Sir Claude MacDonald –
era che il governo cinese sarebbe stato talmente influenzato dalle
presunte forze soprannaturali dei boxers da credere che essi avrebbero
potuto sfidare il resto del mondo senza correre alcun pericolo».
Il 17 giugno 1900 l’esercito regolare cinese permise ai boxers di
entrare in Pechino – da cui essi erano stati sino a quel momento
interdetti per motivi di ordine pubblico -, rendendo così pienamente
manifesto l’appoggio della corte imperiale al movimento xenofobo. La
sera del 19 l’imperatrice inviò un legato a comunicare che gli stranieri
avrebbero dovuto traslocare tutti a Tientsin entro le ore 16 del giorno
seguente, per non ben precisati motivi di sicurezza. Si trattava di un
ultimatum inaccettabile, considerato che l’esercito imperiale che
avrebbe dovuto fornire la protezione necessaria al trasferimento era già
passato ai rivoltosi, e che proprio a Tientsin l’esercito stesso aveva
assalito la colonia francese con l’ordine di uccidere tutti i bianchi. I
rappresentanti delle potenze- mondiali in Cina avevano però già da
tempo avuto chiari segnali dell’imminente tragedia: il 31 dicembre
precedente, di fronte all’assassinio del reverendo Brooks, l’imperatrice
aveva assicurato che i responsabili sarebbero stati puniti, ma già il
giorno successivo circolavano per Pechino manifesti inneggianti alla
insurrezione; nella cittadina di Pas-Tui, inoltre, erano stati uccisi
ottocento cinesi cristiani. Gli ambasciatori avevano perciò
colpevolmente sottovalutato lo stato di fatto: una fatale miscela di
ottimismo sfrenato, di fiducia nella autorità dei propri governi presso
la corte imperiale e di affidamento nella mansuetudine degli orientali,
impediva ai ministri di rendersi conto della gravità della situazione,
difficile da percepire anche a causa della rigorosa separazione della
comunità europea da quella cinese. Più di tanti eccidi, fu invece
l’incendio della tribuna d’onore all’ippodromo a fare loro aprire gli
occhi: alle navi da guerra che si trovavano in quella zona (tra le quali
vi erano due navi italiane, l’Elba e la Calabria), era stato perciò
dato troppo tardi l’ordine di riunirsi nella baia di Taku, di fronte a
Tientsin, a disposizione delle rispettive ambasciate. Dalle navi era
stato sbarcato un contingente d’emergenza formato da 426 marinai di
diverse nazionalità, e posto a difesa del quartiere delle legazioni a
Pechino. Tale quartiere comprendeva al suo interno le legazioni dei vari
paesi (per lo più ravvicinate tra loro – eccezion fatta per quella
austriaca e quella italiana – a formare una sorta di quadrilatero
irregolare), edifici pubblici cinesi (tra i quali la sede delle Dogane),
palazzi della nobiltà locale, negozi e attività commerciali, fra le
quali un albergo e la banca; il lato sud era chiuso dalla muraglia della
città tartara.
In seguito alle pressanti richieste di aiuto da parte dei diplomatici,
il 10 giugno era partita da Tientsin, dove si trovava la squadra navale,
una colonna di duemila fucilieri di marina di diverse nazionalità –
comprendente pure quarantadue italiani sbarcati dalla R. Nave Calabria
(cinque dei quali non fecero più ritorno in patria) – al comando
dell’Ammiraglio inglese Sir Edward Seymour. Pechino distava circa 130
km, e Seymour decise di servirsi di un convoglio ferroviario: e pensò
male, perché le truppe regolari cinesi (oramai alleate dei boxers)
avevano fatto saltare diversi tratti di strada ferrata, bloccando la
colonna e costringendo alfine l’Ammiraglio a tentare un rientro
fortunoso a Tientsin, via fiume con l’aiuto di giunche, dopo sette
giorni occupati a contrastare gli attacchi guerriglieri provenienti
dalla campagna. Seymour e il suo stato maggiore avevano dato
l’operazione per già fatta e conclusa, tanto avevano sottovalutato il
nemico, nella convinzione – come ebbe a scrivere lo Spectator – «che
qualsiasi forza europea, comunque piccola, possa battere qualsiasi forza
cinese comunque grande». La sera dell’11, i carri mandati alla stazione
della capitale ad accogliere i soldati della colonna che avrebbe dovuto
liberare il quartiere delle legazioni, erano tornati vuoti. Se
l’Ammiraglio avesse proseguito a piedi, forse sarebbe giunto a Pechino
in soli due giorni. Le uniche notizie che a Pechino si ebbero di lui,
invece, furono alcuni suoi ottimistici biglietti, che gli guadagnarono
il soprannome di See-no-more («Non- lo-vedi-più»).
La conferma che le voci di una rivolta imminente erano fondate era
giunta il 13 giugno, quando la capitale era stata messa a fuoco da un
gruppo di facinorosi, e centinaia di cinesi convertiti, donne e bambini
erano stati fatti a pezzi e mutilati. Due giorni prima, il cancelliere
della Legazione giapponese Sugiyama era stato linciato per la strada, e
il suo cuore estirpato era stato inviato in dono a un generale cinese.
Proprio per questo, poiché oramai erano già chiare le intenzioni della
corte, al ricevimento dell’ultimatum l’ambasciatore tedesco barone Von
Ketteler, ben conosciuto per la sua intolleranza e per i modi violenti,
ritenne di recarsi a corte per esigere spiegazioni, e costringere
finalmente l’imperatrice a mettere le carte in tavola: durante il
tragitto, fu però assassinato sulla sua portantina, e gli vennero
strappati gli occhi. Mentre i soldati tedeschi per rappresaglia
devastavano il palazzo ove risiedeva l’ufficio affari esteri del governo
cinese, gli altri ambasciatori capivano che oramai non v’era più alcuna
speranza di contare sulla diplomazia e sull’autorevolezza delle potenze
da loro rappresentate. Alle ore 16 del 20 giugno i cinesi, come
promesso, attaccarono le legazioni scontrandosi col reparto
multinazionale già apprestato a difesa. L’indomani la Cina dichiarava
guerra a tutte le nazioni rappresentate nel quartiere delle legazioni:
Gran Bretagna, Germania, Spagna, Belgio, Russia, Austria, Francia,
Italia, Olanda, Giappone e Stati Uniti. Si trattò indubbiamente di un
gesto inconsulto, dovuto allo stato di confusionale incoscienza di cui
erano preda le massime autorità cinesi a cominciare dalla sclerotica
imperatrice Tsu-Shi. Nel quartiere delle legazioni si erano in
precedenza rifugiati i bianchi residenti a Pechino e molti cinesi
convertiti, complessivamente tremila persone. L’ambasciatore inglese Sir
Claude Mac Donald si occupava del coordinamento politico-diplomatico,
mentre l’austriaco von Thomann, comandante della Nave Zenta, in qualità
di ufficiale più alto in grado si era posto al comando del contingente
multinazionale. La resistenza all’assedio non presentava,
apparentemente, troppe difficoltà: il cibo era garantito dallo
stabilimento di un fornito albergatore svizzero e dai cavalli presenti
in grande quantità, diversi pozzi scavati nei giardini fornivano
l’acqua, e, per i bambini e gli ammalati, una mucca provvedeva
quotidianamente al latte. Difettavano invece i medicinali e le
munizioni, soprattutto agli italiani e ai giapponesi che disponevano di
un centinaio di colpi per fucile (peraltro l’utilizzo di armi diverse
per ogni nazionalità non permetteva neppure di costituire una riserva
comune); il pezzo più grosso a disposizione era un cannoncino italiano
da 37 mm. Per le strade, intanto, divampava la violenza: l’imperatrice
era giunta perfino ad offrire cinquanta, quaranta e trenta taels per
ogni testa di bianco, a seconda se uomo donna o bambino; mentre la testa
mozzata del professor James faceva già bella mostra di sé in una
gabbietta collocata sull’architrave della porta Tuanh-Ugan. Poco prima
dell’assalto alle legazioni era stata attaccata pure la cattedrale
cattolica del quartiere di Peitang, dove si erano rifugiate 3500 persone
(bambini in altissima percentuale), difese da un gruppo di soli dieci
marinai italiani al comando del S. Ten. di Vascello Angelo Olivieri, e
di trentatrè francesi comandati dal S. Ten. di Vascello Henry.
All’interno del quartiere assediato si trovavano, oltre alla cattedrale,
anche la casa del vescovo Favier, un orfanotrofio, un convento, un
ambulatorio, diverse scuole e attività commerciali. Il 25 giugno il
governo cinese dichiarò cessate le ostilità, ma gli ambasciatori non si
fidarono, e a ragion veduta fecero raddoppiare la guardia; durante la
notte i cinesi attaccarono in massa da tre lati, senza però riuscire nel
loro intento. Anche per le navi ancorate nella baia di Taku non tirava
buon vento: erano rimaste con poco personale – il minimo indispensabile
per effettuare le manovre di bordo – ed erano tenute sotto tiro da una
fila di quattro muniti forti cinesi posti all’imboccatura del fiume.
Senza contare che i comandanti si trovavano nella infelice posizione di
dovere prendere delicate decisioni, anche di natura politica, nella
impossibilità di ricevere ordini dai rispettivi governi: la notte fra il
16 e il 17, con nove piccole navi – le sole che potessero inoltrarsi
nella secca del porto – gli europei riuscirono ad impossessarsi dei
forti, garantendosi, con il controllo di Taku, la possibilità di
rifornire la colonna Seymour e, di conseguenza, di portare soccorso alle
legazioni a Pechino. A Tientsin, con la consueta quanto inspiegabile
lentezza, si procedeva alla formazione una nuova colonna al comando del
generale inglese Alfred Gasalee, per liberare il quartiere delle
legazioni: essa era composta da circa 17.000 uomini tra francesi,
inglesi, americani, russi, tedeschi, giapponesi, austriaci e italiani
(35 uomini, questi ultimi, al comando del S. Ten. Vascello Giuseppe
Siriani). La marcia verso Pechino – che si sperava non avrebbe avuto
medesima sorte della colonna Seymour – dopo alcuni tentennamenti fu
intrapresa il 4 agosto. Gli assediati nella capitale, intanto, se la
stavano vedendo male. I boxers infatti, coordinati da ufficiali
dell’esercito regolare, avevano iniziato ad adottare tattiche meno
confuse; il governo cinese li stipendiava come normali soldati e li
aveva equipaggiati con antiquati cannoncini e alcuni Krupp, che per
fortuna il comandante in capo, Gen. Jung-Lu, non permise – almeno in un
primo momento – di usare, al fine di evitare una inutile strage. E, ad
onore del vero, non erano veramente pochi neppure i governatori
provinciali e i comandanti militari che si rifiutarono di obbedire agli
ordini della vecchia Tsu-Hsi. Quest’ultima peraltro, per cercare di
confondere gli ambasciatori e l’opinione pubblica internazionale, aveva
anche stipulato una tregua e fatto giungere alle legazioni carretti
carichi di cibo e di frutta fresca, come dono personale, in segno di
(falsa) amicizia e per alleviare i disagi della guerra: un comportamento
molto ambiguo, che mirava soltanto a confondere le acque al tavolo
delle trattative di pace che si sarebbe necessariamente aperto di lì a
poco tempo, e dove il governo cinese avrebbe poi sempre proclamato la
propria completa estraneità al movimento xenofobo. La resistenza degli
europei all’interno del quartiere vide alcuni momenti particolarmente
drammatici. Uno fu quando il comandante militare von Thomann, nel timore
di essere preso da più lati, abbandonò la legazione austriaca, causando
anche l’involontaria ritirata degli italiani, che si trovavano a quel
punto a rischiare l’accerchiamento. L’ambasciatore Mac Donald lo rilevò
dal comando, incaricandosene egli stesso, e l’austriaco, per cancellare
l’onta subita, chiese e ottenne di potere combattere negli avamposti,
dove rimase ucciso qualche giorno prima della liberazione. Gli italiani,
al comando del S. Ten. Vascello Federico Paolini, svolsero dapprima
servizio di pattugliamento in difesa della nostra ambasciata; poi,
quando questa cadde nelle mani dei rivoltosi, furono assegnati al
colonnello giapponese Shiba per occuparsi, assieme ai suoi uomini, della
difesa del settore settentrionale. Con il passare – lento ed
inesorabile – dei giorni, gli assediati al quartiere delle legazioni
stavano finendo il cibo, ed avevano oramai perduto ogni speranza di
salvezza, giacché le linee telegrafiche erano state interrotte e, benché
un soldato fosse riuscito ad uscire da Pechino, nessuno poteva sapere
che era poi giunto sino a Tientsin per richiedere un sollecito
intervento. Per di più i rivoltosi, messe le mani sui Krupp, avevano
preso a sparare indiscriminatamente. Gli uomini di Olivieri e di Henry,
asseragliati nella cattedrale, resistevano appena, minacciati per di più
da un nuovo tranello che i cinesi andavano preparando loro: una serie
di gallerie minate proprio al di sotto delle fondamenta dell’edificio,
che con le varie esplosioni provocarono oltre 150 morti, e che avrebbero
completamente distrutto i palazzi in cui stavano gli europei se i
francesi e i giapponesi della colonna Gasalee – come vedremo tra poco –
non fossero giunti in tempo. Nonostante alcune rapide battaglie,
combattute con successo nelle città di Peitsang (5 agosto), Yangtsun (il
6) e Tungciad (il 12), la marcia dei soccorritori procedette a rilento,
per la difficoltà d’impiego dei pochi cavalli e ponies di cui
disponevano gli europei, e per le controversie che continuamente
sorgevano fra gli ufficiali delle massime potenze: il generale Frey,
comandante dei francesi, ebbe a scrivere che si trattò di una campagna
improvvisata, combattuta da un esercito che parlava lingue diverse ed
era composto piuttosto da bande che da reparti militarmente organizzati.
Nel corso della marcia, una volta esaurite le forze e i mezzi, i
contingenti francese, tedesco, austriaco e italiano dovettero fermarsi e
rientrare a Tientsin, per poi rimettersi nuovamente in cammino sotto il
comando del gen. Frey ad inseguire penosamente, a tappe forzate, il
grosso della spedizione.
Il 14 agosto la colonna Gasalee – con in testa i cosacchi del generale
Wassilewsky e i feroci sikh britannici impegnati nel tentativo di
battersi reciprocamente sul tempo, e inseguita a ruota dal contingente
del gen. Frey – entrò finalmente in Pechino. E avvenne allora lo scontro
decisivo, nel quale tanto gli alleati quanto i boxers giocarono il
tutto per tutto: e persino i diplomatici, compresa la gravità del
frangente, si gettarono nella mischia con le poche armi rimaste. I
rivoltosi dopo qualche ora furono sopraffatti, e gli indiani del
reggimento britannico liberarono il quartiere. Gli uomini asserragliati
nella cattedrale furono liberati soltanto il 16 agosto. Erano stretti
d’assedio dal 15 giugno, e su di loro erano stati sparati oltre 2500
proiettili: un’enormità, rispetto ai 3000 sparati contro le legazioni,
che però si estendevano su un perimetro di molto superiore. Alla
cattedrale i liberatori giunsero inspiegabilmente soltanto due giorni
dopo, quando i bombardamenti stavano oramai cessando per ordine
dell’imperatrice che, del tutto rimbambita, continuava a lamentarsi
dell’assordante rumore degli spari. Poi la :vecchia si ritirò nella
“stanza dei piaceri”, dove fu avvisata dagli eunuchi che i boxers erano
in rotta. Tsu-hsi non perse. tempo e, fatti caricare gli scrigni in cui
erano contenuti i suoi taels d’oro su un carro, e indossati abiti
contadini, si fece condurre fuori del palazzo, per tentare la fuga
assieme all’imperatore legittimo: a Pechino sarebbe ritornata soltanto
più tardi. Tre giorni dopo giunsero fortunosamente nella capitale anche
tedeschi, austriaci e italiani. Il Corpo di spedizione inviato
dall’Italia era comandato dal Colonnello Vincenzo Garioni, titolare del
24° Reggimento fanteria, e si componeva di:
- un Battaglione di fanteria, comandato dal Ten. Col. f.(alp.) Tommaso Salsa, costituito da quattro compagnie fornite da altrettanti Reggimenti (la 10a dell’8° Rgt. “Cuneo”, la 10a del 41° Rgt. “Modena”, la 6a del 43° Rgt “Forlì” e la 12a del 69° Rgt. “Ancona”);
- un Battaglione Bersaglieri “Estremo Oriente”, comandato dal Magg. f.(b) Luigi Agliardi (un ufficiale proveniente dal 5° Bersaglieri), composto da quattro compagnie, una fornita dai Reggimenti 5° e 9° (di stanza rispettivamente a Roma e a Livorno) che avevano pure approntato lo Stato Maggiore del Corpo, una dai Reggimenti 8° e 1 ° (di stanza a Napoli e a Palermo), una dai Reggimenti 4° e 11° (di stanza a Bologna e ad Ancona) e una dai Reggimenti 2° e 6° (di stanza a Milano e a Verona);
- una batteria mitragliatrici, con quattro Gardener e personale d’artiglieria, comandata dal Cap. a. Alcide Vallauri;
- un distaccamento misto del Genio su tre drappelli (zappatori, pontieri e telegrafisti ottici) provenienti dal 1° e dal 3° Reggimento, comandato dal Ten. g. Vito Modugno;
- un ospedaletto da campo con cinque letti;
- un drappello sussistenza con quattro forni mobili in ferro;
- un drappello di Reali Carabinieri (un maresciallo, un vice-brigadiere e sei militi) alle dirette dipendenze del Comando (va ricordato che alcuni di questi carabinieri rimasero successivamente a presidio della nostra concessione anche dopo il rientro in patria del contingente).
Il Corpo di Spedizione italiano contava dunque, in tutto, 83
ufficiali, 1882 fra sottufficiali e truppa, 178 quadrupedi. Si era
cercato di preferire, nei limiti del possibile, il reclutamento
volontario, al fine di disporre di soldati entusiasti dell’impresa e
motivati di fronte ai rischi (per quanto una tale eterogeneità avrebbe
influito negativamente sulla efficienza operativa). Mentre il Corpo si
approntava, peraltro, era già partito alla volta della Cina
l’Incrociatore «Fieramosca», con due compagnie da sbarco della R. Marina
e l’ammiraglio Candiani a bordo; seguivano a ruota il «Vesuvio» –
purtroppo subito caduto in avaria – e il «Vittor Pisani», anch’esso
carico di due compagnie da sbarco. Il 16 luglio iniziò a Napoli il
carico dei soldati sui piroscafi «Minghetti», «Giava» e «Singapore», e
le operazioni d’imbarco terminarono la sera del 19 in fretta e furia,
per quanto l’imbarco completo fosse stato programmato per il giorno
successivo. Per il soverchio carico (le 500 tonnellate previste per
ciascun piroscafo erano divenute più del doppio) furono lasciati a terra
materiali e 36 muli. All’ultimo momento fu scoperto pure un
clandestino: un sergente dei bersaglieri desideroso di prendere parte
all’impresa pur non essendo stato prescelto; qualche storia dei
bersaglieri racconta anche che non pochi fanti piumati, al momento
dell’estrazione dei nomi dei soldati da fare partire, bararono per
essere sicuri di salire a bordo.
Alla mattina Umberto I – che pochi giorni dopo avrebbe perso la vita a Monza nell’attentato ordito dall’anarchico Bresci – aveva passato in rassegna i reparti, e ancora sul far della sera, alla partenza dei piroscafi (scortati dalla R. Nave «Stromboli») salutava i soldati a bordo di una lancia.
La truppa poteva contare su un soprassoldo di 40 centesimi, che saliva a 2 lire per i sottufficiali e a oltre 8 lire per gli ufficiali. La razione viveri prevedeva 750 g di pane, 375 g di carne, 125 g di riso o pasta, 15 g di caffè, 20 g di zucchero, 20 di sale, 0,5 g di pepe e 15 g di lardo. L’uniforme si componeva di divisa in tela (scadente e confezionata frettolosamente), elmetto di sughero coloniale e stivaletti: un vestiario pesante e ingombrante, pensato per fare magari la campagna in Africa, ma poco adatto al rigido clima cinese, che in alcune regioni del nord raggiunge persino i 20° sotto zero. Fortunatamente la tenacia del soldato italiano – unita all’oramai proverbiale “arte di arrangiarsi” – riuscì a supplire parzialmente alla stupidità degli alti comandi. Mancavano pure – incredibilmente – i mezzi di trasporto terrestri. E il 7 marzo 1901 Luigi Barzini, l’inviato del Corriere della Sera, ebbe a scrivere: «È un vero peccato che questi eroici giovanotti si sentano ridicoli e avviliti. Non si può andare all’assalto coperti di palandrane cinesi di tela variopinta messe solo per non morire di freddo». E aggiungeva poi che, al momento dello sbarco, i militari si erano ritrovati con una brutta sorpresa: i viveri, conservati in sacchi di tela, erano andati a male, e i materiali si erano arrugginiti; inoltre si era scatenata una violenta epidemia, propagatasi ben presto fra gli uomini ammassati come sacchi di patate per la mancanza di spazio: Era il colmo dell’incapacità organizzativa, ma il Colonnello Garioni e i suoi uomini seppero sopportare anche questo: peccato soltanto che queste deficienze logistiche avrebbero nel tempo rappresentato la costante di buona parte delle operazioni militari condotte dal nostro Paese. Le stragi non si conclusero, purtroppo, con la Liberazione del quartiere europeo a Pechino. Si può dire anzi che s’intensificarono proprio allora, poiché i soldati europei dettero avvio ad una cruenta e spietata opera di repressione, che coinvolse anche molti innocenti. Bastava infatti una delazione per mandare chiunque di fronte al plotone d’esecuzione; e avveniva così che spesso e volentieri la follia omicida – questa volta degli europei – veniva rivolta dai cinesi contro i loro nemici personali. A esacerbare questo stato di cose aveva senz’ altro contribuito la notizia, pubblicata nei giorni precedenti l’imbarco, dal «Daily mail» londinese, che la resistenza nel quartiere aveva ceduto, e che i diplomatici erano stati barbaramente trucidati. L’opinione pubblica era rimasta sconvolta, ed era aumentata la rabbia nel cuore dei soldati, soprattutto di quelli tedeschi, che il Kaiser stesso aveva esortato a ripagare i cinesi con la medesima loro moneta, facendo impallidire il ricordo di Attila. Sopraggiungevano intanto i contingenti inviati dai vari paesi, che da Taku guadagnavano Tientsin per recarsi all’appuntamento con gli “alleati” e con la gloria. Il corpo di spedizione italiano, al comando del Col. Garioni, giunse il 29 agosto 1900: era partito – come abbiamo detto – la sera del 19 luglio, da Napoli; durante il viaggio aveva sostato a Porto Said (il 23 luglio), a Aden (il 29) e a Singapore (dal 12 al 14 agosto), e una volta sbarcato a Taku aveva percorso in treno i 150 chilometri che lo separavano da Pechino. Il contingente internazionale nominò il 26 settembre un comandante generale, con il compito di coordinare le operazioni dei vari corpi di spedizione: si trattava del Feldmaresciallo tedesco Albrecht Graf von Waldersee, peraltro subito contestato dai francesi e dagli americani, che lo accusarono di eccessivo autoritarismo e cercarono di rendersi quanto più possibile indipendenti dal suo comando. E non avevano ad onor del vero tutti i torti, giacché il Maresciallo Generale Mondiale (come egli stesso amava essere chiamato) non aveva altra mira se non quella di favorire sfacciatamente gli interessi economici e il prestigio del suo paese. Gli italiani accettarono invece la nomina senza discutere, anche perché un contingente così povero di uomini e di mezzi e comandato – fatto anche questo non trascurabile – da un ufficiale superiore anziché da un ufficiale generale, non avrebbe potuto certamente pretendere,di avere un qualche potere decisionale. A ciò s’aggiunga che l’Italia era tutt’altro che una grande potenza, e veniva pertanto guardata dagli alleati con una certa supponenza.
Non poche opere di divulgatori italiani evidenziano, ancora in tempi recenti, come nel quartiere affidato alla sorveglianza degli italiani non furono compiuti troppi atti criminosi, né da parte nostra né da parte cinese, per quel rapporto di relativa fiducia e di rispetto reciproco che si instaurò fra i soldati e la popolazione locale. È invece un dato di fatto che la frenesia di vendetta e di saccheggio non risparmiò purtroppo nessun contingente, e del resto sarebbe storicamente improponibile pensare che gli europei potessero provare una qualsiasi forma di considerazione – e quindi di rispetto – nei confronti di un “nemico” al quale non veniva nemmeno riconosciuta la dignità di essere tale. I cinesi venivano infatti visti come un popolo barbaro, primitivo, al quale portare la civiltà nel momento stesso in cui si affermava la supremazia geopolitica. «Ma quale civiltà stiamo portando?», si chiedeva tuttavia il tenente medico Giuseppe Messerotti Benvenuti, che era partito alla volta della Cina armato di medicinali e di una Kodak, con la quale immortalò centinaia di immagini, che sono state recentemente esposte in una mostra dedicatagli nella sua Modena: ritratti di militari in posa come in una gita scolastica si alternano a foto di decapitazioni e gogne, macerie e facce di condannati a morte. Alla retorica che per lungo tempo ha voluto il soldato italiano “buono a tutti costi”, diverso dagli altri e quasi restio ad uccidere, rispondono i rapporti dell’epoca custoditi presso l’Archivio Storico della Marina Militare e le testimonianze scritte dei protagonisti: «Erano passati giorni di tremenda paura – scriveva M. Valli – nei quali qualunque indigeno, servo o letterato che fosse, s’era inchinato umilmente all’ultimo fantaccino delle truppe internazionali. Su per il fiume, da certe giunche di Europei s’era tirato al bersaglio, per giuoco, sui cinesi che si scorgevano nelle campagne, e le acque torbide del Pei-ho avevano continuato a trascinare cadaveri per giorni e giorni. In altre occasioni s’erano riuniti in gruppi gli indigeni, condannati da un giudizio sommario, obbligati a scavarsi una grande fossa e discendervi. Erano fucilati lì dentro, a bruciapelo, senz’altro fastidio che quello di spingere dentro, sui cadaveri, la terra ammucchiata [...]. Spesso, dove sarebbe bastato uno spintone, si tirò una fucilata, e per qualche tempo in quell’atmosfera di dolore e di morte non parve delitto uccidere». Ad ogni modo, il Maresciallo von Waldersee – che fu testimone della maggiori stragi pur senza combattere una sola battaglia – ebbe a dichiarare: «In tutte le innumerevoli esecuzioni che furono compiute sotto ai miei occhi, non vidi mai un cinese mostrare il minimo segno di paura o di emozione». Ai nostri vennero affidate diverse missioni per smorzare le ultime resistenze all’interno della Cina. Ricordiamo quella del 2 settembre, consistente nell’espugnare i forti di Chan-hai-tuan: un incarico particolarmente gravoso, se si considera che già altri reparti vi si erano cimentati invano, e che nel frattempo agli assediati erano giunti due squadroni di cavalleria di rinforzo. Gli italiani annoveravano 470 uomini su tre compagnie, due di bersaglieri e una di marinai, e malgrado l’inferiorità numerica degli attaccanti il nemico fu costretto dopo tre assalti a ritirarsi, abbandonando persino le armi per correre più velocemente. In un’ altra circostanza i francesi, in segno di spregio agli ordini del Feldmaresciallo von Waldersee, avevano occupato il villaggio di Paoting-fu, che era stato affidato al controllo degli italiani e dei tedeschi, prima ancora che questi potessero giungervi. Non avevano però fatto i conti con il Col. Garioni, per nulla disposto a subire l’affronto senza reagire: così una notte, alla testa di 330 uomini, egli riuscì ad introdursi a Cunansien, una cittadina in quel momento assediata dai francesi, e ad issare il tricolore nella sua piazza principale. Purtroppo, dietro l’aneddoto si può leggere facilmente una realtà poco edificante: gli italiani erano troppo inferiori ai loro alleati per numero di uomini, uniformi ed equipaggiamento, e una delle loro preoccupazioni principali – in mezzo a tante quotidiane umiliazioni – doveva essere quella di tenere sempre alto l’onore. Ad ogni modo, neppure i nostri connazionali rinunciarono alla spartizione “autorizzata” del bottino che sistematicamente teneva dietro ai rastrellamenti: dopo l’occupazione della banca di Paoting-fu, e la confisca dell’intero suo deposito, il contingente italiano ebbe circa 26.000 dollari. Il rientro in patria delle truppe del Contingente cominciò nei primi giorni di agosto 1901. Due compagnie di bersaglieri fecero ritorno l’anno successivo, e le restanti compagnie piumate, unite in un battaglione misto, rimasero in Cina sino al 1905. L’assedio delle legazioni, durato cinquantacinque giorni, aveva fatto annoverare 66 stranieri uccisi, due adulti e sei bambini morti per cause diverse, e oltre 150 persone rimaste ferite, mentre il numero dei cinesi morti non poté essere registrato. La guerra si concluse ufficialmente con il Trattato di Pace sottoscritto, dopo faticose trattative, il 7 settembre 1901. Esso sanciva la presenza economico-militare degli europei in Cina, attraverso ulteriori privilegi commerciali e un forte stanziamento di truppe europee (che consentiva il completo controllo del quartiere delle legazioni). La Cina s’impegnava inoltre a punire i funzionari responsabili, ad erigere monumenti alla memoria degli europei uccisi, a sospendere l’arruolamento di funzionari nelle province più toccate dalla ribellione e a pagare alle potenze europee un risarcimento in denaro ammontante complessivamente a 450 milioni di dollari, che furono rateizzati nell’arco di quarant’anni, salendo così – calcolati gli interessi – a 980 milioni. Attraverso il controllo dei dazi doganali tutte le rate furono regolarmente riscosse, sino all’ultima, che venne saldata nel 1940. Inoltre, il divieto di importare armi e la distruzione dei forti di Taku misero definitivamente in ginocchio l’esercito imperiale. L’Italia ottenne la concessione di una zona di neppure 450.000 mq a Tientsin, costituita da un terreno lungo il fiume ricco di saline, un villaggio e un’ampia area paludosa nella quale gli indigeni avevano l’abitudine di seppellire i morti. Dopo un lungo periodo di disinteresse, nel quale la concessione rimase abbandonata a se stessa con gli effetti, in termini d’incuria, che vennero ripetutamente denunciati da militari italiani – fu avviata un’alacre opera di bonifica delle zone infette. Due giorni dopo l’8 settembre 1943, i giapponesi si presentarono ai militari italiani che ancora rimanevano in Cina, intimando loro la resa e facendoli prigionieri. Con il trattato di Parigi (10 febbraio 1947) le potenze occidentali fecero esplicito atto di rinuncia alle loro mire in Cina.
Per concludere, possiamo affermare che la rivolta dei boxers che inaugurò il nuovo secolo rappresentò il primo tentativo di guerra di liberazione condotta da un popolo contro i suoi dominatori occidentali. Le devastazioni, gli stermini e gli stupri furono il prodotto di una tensione fortemente patriottica – paragonabile forse a quella che animò i nostri eroi risorgimentali – volta ad emancipare il paese dall’assoggettamento politico, economico e culturale degli europei, a difendere la propria identità storica e a tentare il rilancio di un’economia che sino a quel momento era stata orientata dagli occidentali a proprio esclusivo vantaggio. Senza queste feroci ribellioni, senza le stragi e gli orrori prodotti dai moti di xenofobia, la Cina sarebbe stata probabilmente smembrata e colonizzata al pari del continente africano. In questo anelito di libertà, gli intellettuali si trovarono fianco a fianco con gli strati più bassi del popolo, e cercarono di esercitare su di loro un controllo ambiguo, ora incitando li alla ribellione, ora frenandoli di fronte alle violenze più efferate. I termini di questo confronto fra i mandarini e la massa non ci sono chiari con precisione: se gli europei poterono resistere per quasi due mesi all’interno delle legazioni assediate, lo si dovette infatti sicuramente non soltanto a quelle poche decine di soldati che sostennero eroicamente gli assalti, ma anche e soprattutto all’azione frenante dei notabili cinesi (e della stessa Imperatrice), preoccupati di dovere poi subire le conseguenze della repressione europea. Il popolo, animato da un generico e confuso odio verso tutti gli europei indistintamente (dai commercianti d’oppio alle suore), mise inconsapevolmente la propria ferocia al servizio della dinastia Manciù. «Sterminio agli stranieri – recitava una canzone d’allora – distruggete le ferrovie, demolite le navi, tagliate i fili dell’elettricità: sulle rovine di una Cina che non è nostra costruiremo la nostra Cina». È d’altro canto vero che, senza l’invadenza dei commercianti e dei missionari europei, e senza i bombardamenti delle cannoniere che li appoggiavano nella loro opera di penetrazione quando questa non era gradita, la dinastia Manciù non avrebbe forse mai consentito alla Cina di uscire da quell’isolamento che taluni hanno definito “splendido”, ma che alla lunga, impedendo al paese di inserirsi tra le nazioni progredite, lo avrebbe lasciato veramente in balia dei primi venuti. Tuttavia, il medesimo ideale di libertà e di riscossa del prestigio della Cina sarebbe stato ripreso di lì a qualche anno da Sun Yan Tsen, sfociando nel 1911 nella fondazione della Repubblica Cinese. E fu l’avvio di un rapido processo di riorganizzazione dell’economia e delle strutture sociali del paese, condotto attraverso l’intero Novecento, passando anche attraverso il regime di Mao Tse- tung. Tale evoluzione mantenne sempre una caratteristica costante, che il maoismo seppe raccogliere dalla decaduta dinastia Manciù ed usare come elemento di coesione sociale e di pulsione verso il progresso: l’emancipazione dagli europei e il riscatto delle sorti del proprio paese, convogliati in un odio xenofobo che si sta attenuando soltanto in questi ultimi anni. È significativo, a tal proposito, il fatto che il quartiere delle legazioni a Pechino fosse situato proprio nelle immediate vicinanze di un luogo che sarebbe poi stato teatro, nel corso del tempo, dapprima delle adunate di Mao, e successivamente, al principio degli anni ’90, delle drammatiche scene della contestazione pacifica degli studenti cinesi: piazza Tien An Men.
Alla mattina Umberto I – che pochi giorni dopo avrebbe perso la vita a Monza nell’attentato ordito dall’anarchico Bresci – aveva passato in rassegna i reparti, e ancora sul far della sera, alla partenza dei piroscafi (scortati dalla R. Nave «Stromboli») salutava i soldati a bordo di una lancia.
La truppa poteva contare su un soprassoldo di 40 centesimi, che saliva a 2 lire per i sottufficiali e a oltre 8 lire per gli ufficiali. La razione viveri prevedeva 750 g di pane, 375 g di carne, 125 g di riso o pasta, 15 g di caffè, 20 g di zucchero, 20 di sale, 0,5 g di pepe e 15 g di lardo. L’uniforme si componeva di divisa in tela (scadente e confezionata frettolosamente), elmetto di sughero coloniale e stivaletti: un vestiario pesante e ingombrante, pensato per fare magari la campagna in Africa, ma poco adatto al rigido clima cinese, che in alcune regioni del nord raggiunge persino i 20° sotto zero. Fortunatamente la tenacia del soldato italiano – unita all’oramai proverbiale “arte di arrangiarsi” – riuscì a supplire parzialmente alla stupidità degli alti comandi. Mancavano pure – incredibilmente – i mezzi di trasporto terrestri. E il 7 marzo 1901 Luigi Barzini, l’inviato del Corriere della Sera, ebbe a scrivere: «È un vero peccato che questi eroici giovanotti si sentano ridicoli e avviliti. Non si può andare all’assalto coperti di palandrane cinesi di tela variopinta messe solo per non morire di freddo». E aggiungeva poi che, al momento dello sbarco, i militari si erano ritrovati con una brutta sorpresa: i viveri, conservati in sacchi di tela, erano andati a male, e i materiali si erano arrugginiti; inoltre si era scatenata una violenta epidemia, propagatasi ben presto fra gli uomini ammassati come sacchi di patate per la mancanza di spazio: Era il colmo dell’incapacità organizzativa, ma il Colonnello Garioni e i suoi uomini seppero sopportare anche questo: peccato soltanto che queste deficienze logistiche avrebbero nel tempo rappresentato la costante di buona parte delle operazioni militari condotte dal nostro Paese. Le stragi non si conclusero, purtroppo, con la Liberazione del quartiere europeo a Pechino. Si può dire anzi che s’intensificarono proprio allora, poiché i soldati europei dettero avvio ad una cruenta e spietata opera di repressione, che coinvolse anche molti innocenti. Bastava infatti una delazione per mandare chiunque di fronte al plotone d’esecuzione; e avveniva così che spesso e volentieri la follia omicida – questa volta degli europei – veniva rivolta dai cinesi contro i loro nemici personali. A esacerbare questo stato di cose aveva senz’ altro contribuito la notizia, pubblicata nei giorni precedenti l’imbarco, dal «Daily mail» londinese, che la resistenza nel quartiere aveva ceduto, e che i diplomatici erano stati barbaramente trucidati. L’opinione pubblica era rimasta sconvolta, ed era aumentata la rabbia nel cuore dei soldati, soprattutto di quelli tedeschi, che il Kaiser stesso aveva esortato a ripagare i cinesi con la medesima loro moneta, facendo impallidire il ricordo di Attila. Sopraggiungevano intanto i contingenti inviati dai vari paesi, che da Taku guadagnavano Tientsin per recarsi all’appuntamento con gli “alleati” e con la gloria. Il corpo di spedizione italiano, al comando del Col. Garioni, giunse il 29 agosto 1900: era partito – come abbiamo detto – la sera del 19 luglio, da Napoli; durante il viaggio aveva sostato a Porto Said (il 23 luglio), a Aden (il 29) e a Singapore (dal 12 al 14 agosto), e una volta sbarcato a Taku aveva percorso in treno i 150 chilometri che lo separavano da Pechino. Il contingente internazionale nominò il 26 settembre un comandante generale, con il compito di coordinare le operazioni dei vari corpi di spedizione: si trattava del Feldmaresciallo tedesco Albrecht Graf von Waldersee, peraltro subito contestato dai francesi e dagli americani, che lo accusarono di eccessivo autoritarismo e cercarono di rendersi quanto più possibile indipendenti dal suo comando. E non avevano ad onor del vero tutti i torti, giacché il Maresciallo Generale Mondiale (come egli stesso amava essere chiamato) non aveva altra mira se non quella di favorire sfacciatamente gli interessi economici e il prestigio del suo paese. Gli italiani accettarono invece la nomina senza discutere, anche perché un contingente così povero di uomini e di mezzi e comandato – fatto anche questo non trascurabile – da un ufficiale superiore anziché da un ufficiale generale, non avrebbe potuto certamente pretendere,di avere un qualche potere decisionale. A ciò s’aggiunga che l’Italia era tutt’altro che una grande potenza, e veniva pertanto guardata dagli alleati con una certa supponenza.
Non poche opere di divulgatori italiani evidenziano, ancora in tempi recenti, come nel quartiere affidato alla sorveglianza degli italiani non furono compiuti troppi atti criminosi, né da parte nostra né da parte cinese, per quel rapporto di relativa fiducia e di rispetto reciproco che si instaurò fra i soldati e la popolazione locale. È invece un dato di fatto che la frenesia di vendetta e di saccheggio non risparmiò purtroppo nessun contingente, e del resto sarebbe storicamente improponibile pensare che gli europei potessero provare una qualsiasi forma di considerazione – e quindi di rispetto – nei confronti di un “nemico” al quale non veniva nemmeno riconosciuta la dignità di essere tale. I cinesi venivano infatti visti come un popolo barbaro, primitivo, al quale portare la civiltà nel momento stesso in cui si affermava la supremazia geopolitica. «Ma quale civiltà stiamo portando?», si chiedeva tuttavia il tenente medico Giuseppe Messerotti Benvenuti, che era partito alla volta della Cina armato di medicinali e di una Kodak, con la quale immortalò centinaia di immagini, che sono state recentemente esposte in una mostra dedicatagli nella sua Modena: ritratti di militari in posa come in una gita scolastica si alternano a foto di decapitazioni e gogne, macerie e facce di condannati a morte. Alla retorica che per lungo tempo ha voluto il soldato italiano “buono a tutti costi”, diverso dagli altri e quasi restio ad uccidere, rispondono i rapporti dell’epoca custoditi presso l’Archivio Storico della Marina Militare e le testimonianze scritte dei protagonisti: «Erano passati giorni di tremenda paura – scriveva M. Valli – nei quali qualunque indigeno, servo o letterato che fosse, s’era inchinato umilmente all’ultimo fantaccino delle truppe internazionali. Su per il fiume, da certe giunche di Europei s’era tirato al bersaglio, per giuoco, sui cinesi che si scorgevano nelle campagne, e le acque torbide del Pei-ho avevano continuato a trascinare cadaveri per giorni e giorni. In altre occasioni s’erano riuniti in gruppi gli indigeni, condannati da un giudizio sommario, obbligati a scavarsi una grande fossa e discendervi. Erano fucilati lì dentro, a bruciapelo, senz’altro fastidio che quello di spingere dentro, sui cadaveri, la terra ammucchiata [...]. Spesso, dove sarebbe bastato uno spintone, si tirò una fucilata, e per qualche tempo in quell’atmosfera di dolore e di morte non parve delitto uccidere». Ad ogni modo, il Maresciallo von Waldersee – che fu testimone della maggiori stragi pur senza combattere una sola battaglia – ebbe a dichiarare: «In tutte le innumerevoli esecuzioni che furono compiute sotto ai miei occhi, non vidi mai un cinese mostrare il minimo segno di paura o di emozione». Ai nostri vennero affidate diverse missioni per smorzare le ultime resistenze all’interno della Cina. Ricordiamo quella del 2 settembre, consistente nell’espugnare i forti di Chan-hai-tuan: un incarico particolarmente gravoso, se si considera che già altri reparti vi si erano cimentati invano, e che nel frattempo agli assediati erano giunti due squadroni di cavalleria di rinforzo. Gli italiani annoveravano 470 uomini su tre compagnie, due di bersaglieri e una di marinai, e malgrado l’inferiorità numerica degli attaccanti il nemico fu costretto dopo tre assalti a ritirarsi, abbandonando persino le armi per correre più velocemente. In un’ altra circostanza i francesi, in segno di spregio agli ordini del Feldmaresciallo von Waldersee, avevano occupato il villaggio di Paoting-fu, che era stato affidato al controllo degli italiani e dei tedeschi, prima ancora che questi potessero giungervi. Non avevano però fatto i conti con il Col. Garioni, per nulla disposto a subire l’affronto senza reagire: così una notte, alla testa di 330 uomini, egli riuscì ad introdursi a Cunansien, una cittadina in quel momento assediata dai francesi, e ad issare il tricolore nella sua piazza principale. Purtroppo, dietro l’aneddoto si può leggere facilmente una realtà poco edificante: gli italiani erano troppo inferiori ai loro alleati per numero di uomini, uniformi ed equipaggiamento, e una delle loro preoccupazioni principali – in mezzo a tante quotidiane umiliazioni – doveva essere quella di tenere sempre alto l’onore. Ad ogni modo, neppure i nostri connazionali rinunciarono alla spartizione “autorizzata” del bottino che sistematicamente teneva dietro ai rastrellamenti: dopo l’occupazione della banca di Paoting-fu, e la confisca dell’intero suo deposito, il contingente italiano ebbe circa 26.000 dollari. Il rientro in patria delle truppe del Contingente cominciò nei primi giorni di agosto 1901. Due compagnie di bersaglieri fecero ritorno l’anno successivo, e le restanti compagnie piumate, unite in un battaglione misto, rimasero in Cina sino al 1905. L’assedio delle legazioni, durato cinquantacinque giorni, aveva fatto annoverare 66 stranieri uccisi, due adulti e sei bambini morti per cause diverse, e oltre 150 persone rimaste ferite, mentre il numero dei cinesi morti non poté essere registrato. La guerra si concluse ufficialmente con il Trattato di Pace sottoscritto, dopo faticose trattative, il 7 settembre 1901. Esso sanciva la presenza economico-militare degli europei in Cina, attraverso ulteriori privilegi commerciali e un forte stanziamento di truppe europee (che consentiva il completo controllo del quartiere delle legazioni). La Cina s’impegnava inoltre a punire i funzionari responsabili, ad erigere monumenti alla memoria degli europei uccisi, a sospendere l’arruolamento di funzionari nelle province più toccate dalla ribellione e a pagare alle potenze europee un risarcimento in denaro ammontante complessivamente a 450 milioni di dollari, che furono rateizzati nell’arco di quarant’anni, salendo così – calcolati gli interessi – a 980 milioni. Attraverso il controllo dei dazi doganali tutte le rate furono regolarmente riscosse, sino all’ultima, che venne saldata nel 1940. Inoltre, il divieto di importare armi e la distruzione dei forti di Taku misero definitivamente in ginocchio l’esercito imperiale. L’Italia ottenne la concessione di una zona di neppure 450.000 mq a Tientsin, costituita da un terreno lungo il fiume ricco di saline, un villaggio e un’ampia area paludosa nella quale gli indigeni avevano l’abitudine di seppellire i morti. Dopo un lungo periodo di disinteresse, nel quale la concessione rimase abbandonata a se stessa con gli effetti, in termini d’incuria, che vennero ripetutamente denunciati da militari italiani – fu avviata un’alacre opera di bonifica delle zone infette. Due giorni dopo l’8 settembre 1943, i giapponesi si presentarono ai militari italiani che ancora rimanevano in Cina, intimando loro la resa e facendoli prigionieri. Con il trattato di Parigi (10 febbraio 1947) le potenze occidentali fecero esplicito atto di rinuncia alle loro mire in Cina.
Per concludere, possiamo affermare che la rivolta dei boxers che inaugurò il nuovo secolo rappresentò il primo tentativo di guerra di liberazione condotta da un popolo contro i suoi dominatori occidentali. Le devastazioni, gli stermini e gli stupri furono il prodotto di una tensione fortemente patriottica – paragonabile forse a quella che animò i nostri eroi risorgimentali – volta ad emancipare il paese dall’assoggettamento politico, economico e culturale degli europei, a difendere la propria identità storica e a tentare il rilancio di un’economia che sino a quel momento era stata orientata dagli occidentali a proprio esclusivo vantaggio. Senza queste feroci ribellioni, senza le stragi e gli orrori prodotti dai moti di xenofobia, la Cina sarebbe stata probabilmente smembrata e colonizzata al pari del continente africano. In questo anelito di libertà, gli intellettuali si trovarono fianco a fianco con gli strati più bassi del popolo, e cercarono di esercitare su di loro un controllo ambiguo, ora incitando li alla ribellione, ora frenandoli di fronte alle violenze più efferate. I termini di questo confronto fra i mandarini e la massa non ci sono chiari con precisione: se gli europei poterono resistere per quasi due mesi all’interno delle legazioni assediate, lo si dovette infatti sicuramente non soltanto a quelle poche decine di soldati che sostennero eroicamente gli assalti, ma anche e soprattutto all’azione frenante dei notabili cinesi (e della stessa Imperatrice), preoccupati di dovere poi subire le conseguenze della repressione europea. Il popolo, animato da un generico e confuso odio verso tutti gli europei indistintamente (dai commercianti d’oppio alle suore), mise inconsapevolmente la propria ferocia al servizio della dinastia Manciù. «Sterminio agli stranieri – recitava una canzone d’allora – distruggete le ferrovie, demolite le navi, tagliate i fili dell’elettricità: sulle rovine di una Cina che non è nostra costruiremo la nostra Cina». È d’altro canto vero che, senza l’invadenza dei commercianti e dei missionari europei, e senza i bombardamenti delle cannoniere che li appoggiavano nella loro opera di penetrazione quando questa non era gradita, la dinastia Manciù non avrebbe forse mai consentito alla Cina di uscire da quell’isolamento che taluni hanno definito “splendido”, ma che alla lunga, impedendo al paese di inserirsi tra le nazioni progredite, lo avrebbe lasciato veramente in balia dei primi venuti. Tuttavia, il medesimo ideale di libertà e di riscossa del prestigio della Cina sarebbe stato ripreso di lì a qualche anno da Sun Yan Tsen, sfociando nel 1911 nella fondazione della Repubblica Cinese. E fu l’avvio di un rapido processo di riorganizzazione dell’economia e delle strutture sociali del paese, condotto attraverso l’intero Novecento, passando anche attraverso il regime di Mao Tse- tung. Tale evoluzione mantenne sempre una caratteristica costante, che il maoismo seppe raccogliere dalla decaduta dinastia Manciù ed usare come elemento di coesione sociale e di pulsione verso il progresso: l’emancipazione dagli europei e il riscatto delle sorti del proprio paese, convogliati in un odio xenofobo che si sta attenuando soltanto in questi ultimi anni. È significativo, a tal proposito, il fatto che il quartiere delle legazioni a Pechino fosse situato proprio nelle immediate vicinanze di un luogo che sarebbe poi stato teatro, nel corso del tempo, dapprima delle adunate di Mao, e successivamente, al principio degli anni ’90, delle drammatiche scene della contestazione pacifica degli studenti cinesi: piazza Tien An Men.
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