mercoledì 10 agosto 2011

Lieutenant Joe Petrosino

di Domenico Latino

È difficile descrivere le condizioni del quartiere italiano di New York agli inizi del Novecento. Il mezzo milione di nostri connazionali che decise di stabilirsi in questa città, si ammucchiò nei vecchi edifici in legno dell’East Side, a ridosso del ponte di Brooklyn. Il quartiere ben presto si trasformò in una sorta d’alveare umano dove la miseria, la delinquenza, l’ignoranza e la sporcizia erano gli elementi predominanti. È impossibile dire il fango, il pattume, l’umidità fetente, l’ingombro, il disordine di quella zona. Questa era Little Italy: un agglomerato di gruppi regionali diversi dove ogni giorno si celebrava la festa di qualche santo patrono, dove riecheggiavano grida in tutti i dialetti italiani, ma dove non si udiva quasi mai una parola inglese. Un formicaio in continuo movimento, dove i pedoni dovevano essere sempre pronti a scansare le docce di rifiuti che piovevano dalle finestre, dove oltre cinquemila carretti a mano si aggiravano per le strade vendendo di tutto, dai lacci da scarpe alle mortadelle. L’affollatissimo sobborgo rappresentò quasi subito un grosso problema per la polizia. Centinaia di malviventi, approdati felicemente in America grazie all’allegro sistema della distribuzione dei passaporti instaurato dal governo italiano per liberarsi, oltre che degli affamati, anche delle “pecore nere”, trovarono il terreno adatto per trapiantarvi i propri sistemi mafiosi. Le leggi e le tradizioni liberali americane non fornivano gli strumenti necessari per condurre a compimento una radicale opera di contrasto alla criminalità. Le autorità americane finirono per rassegnarsi all’idea che il ghetto italiano si trasformasse in un bubbone infetto. Ci si limitò soltanto a circondarlo simbolicamente con un cordone sanitario, lasciando liberi i pochi malviventi di taglieggiare la moltitudine dei loro connazionali. Gli emigrati italiani trovarono in America un ambiente generalmente ostile. Spesso furono costretti a subire le prepotenze dei gangster irlandesi sotto lo sguardo sornione dei poliziotti, che erano pure irlandesi. La polizia di New York era infatti composta quasi esclusivamente da irlandesi e da ebrei, gruppi etnici dominanti. Su trentamila agenti, soltanto undici erano in grado di comprendere l’italiano, ossia la lingua parlata da circa un quarto della popolazione della città. Era quindi prevedibile che i nostri emigrati diffidassero di una polizia che neppure comprendeva il loro linguaggio. Sarà questa mancanza di dialogo fra emigrati e poliziotti, a favorire lo sviluppo della mafia. Il detective Giuseppe Petrosino, che era allora l’italiano più famoso di New York, si batté strenuamente per arginare l’afflusso di criminali che minacciava di inquinare in modo irreparabile la colonia italiana che stava sorgendo. Ma i suoi sforzi risultarono vani.

Giuseppe Michele Pasquale Petrosino era nato a Padula, in provincia di Salerno, il 30 agosto 1860. Suo padre Prospero faceva il sarto e sua madre si chiamava Maria Giuseppa Arato. Prospero e Maria Giuseppa ebbero altri due figli: Caterina e Vincenzo; poi la madre morì e il vedovo risposò un’altra ragazza di Padula, Maria Mugno, dalla quale ebbe altri tre figli: Antonio, Giuseppina e Michele. Quando il piccolo Giuseppe compì tredici anni, suo padre decise di emigrare in America con tutta la famiglia. Partirono da Napoli nell’estate del 1873, con un bastimento a vela e a vapore, e raggiunsero New York dopo una traversata di venticinque giorni. Considerando l’epoca, la decisione di Prospero di trasferirsi in America può essere giudicata piuttosto eccezionale. L’emigrazione di massa dall’Italia meridionale avrà infatti inizio molti anni dopo. A spingerlo a partire non deve neppure essere stata la nera miseria. Il sarto di Padula non era così povero come la stragrande maggioranza dei suoi compaesani. Il fatto che sia riuscito a mandare i figli maschi alle scuole elementari indica, considerando i tempi, una sia pur modesta agiatezza. Le ragioni che indussero papà Petrosino a emigrare in America non sono dunque del tutto chiare. È probabile che egli abbia voluto seguire l’esempio di un certo Vincenzo Giudice che fu il primo padulese ad approdare in America e anche il primo italiano a indossare l’uniforme della polizia newyorkese. A New York, il tredicenne Giuseppe Petrosino dimostrò subito un certo spirito intraprendente. Col coetaneo Pietro Jorio, aprì un chiosco dove era possibile acquistare giornali e, nello stesso tempo, farsi lucidare le scarpe. Il chiosco venne installato proprio davanti al numero 300 di Mulberry Street, dove aveva sede la centrale di polizia. In quegli anni, quando il termine racket aveva ancora il significato originale di “schiamazzo”, l’Italia era nota in America soprattutto per essere la patria di Giuseppe Garibaldi e gli italiani residenti negli Stati Uniti d’America erano pochissimi e guardati con simpatia. Il giovane Petrosino crebbe dunque in un ambiente ancora immune dai pregiudizi che sarebbero sorti più tardi. Lavorò solo per alcuni anni nel suo piccolo chiosco di giornalaio-lustrascarpe, e dedicò il resto del tempo allo studio dell’inglese, frequentando una scuola serale istituita dal comune per gli emigrati. A sedici anni conosceva molto bene la nuova lingua, anche se non imparò mai a scriverla correttamente. A diciassette otteneva la cittadinanza americana. Il giovane padulese a diciotto anni riuscì a farsi assumere alle dipendenze del comune di New York. L’impiego da lui ottenuto era quello di semplice spazzino ma il giovanotto non restò a lungo con la ramazza in pugno. Infatti, il 19 Ottobre 1883 indossò la divisa di poliziotto. Per alcuni anni, prestò servizio come agente di pattuglia e non si rese mai responsabile della minima mancanza. In ogni occasione sapeva dimostrarsi abile, coraggioso, scaltro e perfetto conoscitore dei regolamenti di polizia. Nel 1890 l’agente italiano aveva già lasciato il monotono servizio di pattuglia per passare all’ufficio investigativo, col compito di occuparsi della malavita italiana. Era allora assessore alla polizia il futuro Presidente degli Stati Uniti Theodore Roosevelt. I due uomini si incontravano spesso, e il poliziotto non perse mai occasione di fare della pubblicità all’uomo politico. In compenso, prima di trasferirsi a Washington per entrare a far parte del governo, Roosevelt nominerà personalmente Petrosino sergeant-detective. Petrosino mostrò molta scaltrezza instaurando subito ottimi rapporti con i rappresentanti della stampa. È noto che quando stava per eseguire qualche arresto importante, era solito avvertire confidenzialmente i reporter più conosciuti affinché potessero assistere di persona all’operazione. Le sue imprese, d’altra parte, avevano lati pittoreschi che ne accrescevano moltissimo l’interesse per la cronaca. Fin dall’inizio della sua carriera, Joe si era specializzato in travestimenti. L’armadio di casa sua era più fornito di un guardaroba di un teatro. Dopo la sua promozione a detective, avvenuta il 20 Luglio 1895, Joe Petrosino fu totalmente liberato dagli incarichi di secondaria importanza e da quel momento gli vennero solamente affidati casi eccezionali. Nel giro di qualche anno il detective diventò famoso a New York e negli Stati vicini. Questo integerrimo italiano, che si batteva coraggiosamente contro i propri connazionali disonesti, incuriosiva gli americani.

14 Aprile 1903, sei del mattino: l’Undicesima Strada Est del quartiere italiano di New York era ancora deserta. Solo dalla vicina Terza Avenue giungevano i primi rumori del traffico. Nella grigia luce dell’alba si scorgeva un grosso barile ritto, presso l’orlo di un marciapiede. Il barile non era vuoto ma alto e panciuto, con le doghe nuove e i cerchi appena arrugginiti, rivelava uno spettacolo sconvolgente: dalla segatura emergeva la testa di un uomo con gli organi genitali ficcati in bocca. Il “caso dell’uomo del barile” risultò subito molto difficile. L’uomo era stato ucciso a coltellate, ma indosso al cadavere non fu trovato alcun documento che permettesse di stabilirne l’identità. Più tardi, un uomo robusto, vestito di scuro con bombetta e bastone, dalla faccia dura e quadrata, leggermente rovinata dal vaiolo, si presentava alla sezione di polizia del Secondo distretto. “Il mio nome è Petrosino” disse, poi si fece accompagnare nell’improvvisato obitorio dove erano stati sistemati i resti dell’ucciso. La sera del 14 Aprile 1903 Giuseppe Petrosino rilasciò una dichiarazione sul caso. “L’uomo del barile - disse - è certamente un italiano e probabilmente un siciliano. Penso che sia stato ucciso per un regolamento di conti all’interno di qualche banda. In Sicilia, a quanto pare, il trattamento dei genitali in bocca è riservato a quelli che parlano troppo”. Alla domanda di un giornalista che gli chiedeva se il delitto potesse essere attribuito alla “Mano Nera”, l’organizzazione criminale che terrorizzava il quartiere italiano, Petrosino rispose seccato: “Ho già detto più volte che la Mano Nera, come organizzazione vera e propria, non esiste. Quelle che realmente esistono sono delle bande, spesso molto piccole e comunque non collegate fra di loro, che sfruttano autonomamente questo nome inventato dagli anarchici per meglio terrorizzare le loro vittime”. Il “delitto del barile” segnò una data importante nella carriera del detective Giuseppe Petrosino. Egli naturalmente non poteva sapere che fra gli individui arrestati c’era quello che, sei anni più tardi, lo avrebbe ucciso in una buia piazza di Palermo: Vito Cascio Ferro. Tuttavia il suo istinto di vecchio poliziotto lo aveva messo in guardia contro questi personaggi, che apparivano assai più scaltri di quelli con cui era abituato a trattare. Evidentemente qualcosa stava cambiando nel mondo della malavita americana. Lo stesso Giuseppe Petrosino aveva finito per rettificare le proprie convinzioni sulla Mano Nera. Fu in quel periodo che il detective venne a conoscenza di un nuovo sistema di ricatto che stava prendendo piede a Little Italy: il racket organizzato e generalizzato, col quale si sottoponevano le vittime a una vera e propria imposta, con scadenze fisse. Questo nuovo sistema ricattatorio era stato introdotto a New York proprio da Vito Cascio Ferro. Agli inizi dell’anno 1905, l’improvviso rifiorire sotto nuove forme della delinquenza italiana indusse il consiglio comunale di New York a togliere il veto al progetto di costituzione di una squadra di agenti composta soltanto da italiani. L’Italian branch, la “squadra italiana”, venne fondata ufficialmente il 20 Gennaio nell’appartamento di due stanze con bagno del detective Petrosino. Ne facevano parte il suo fido collaboratore Maurice Bonoil, un francoirlandese che, essendo nato dell’Est Side, parlava meglio il siciliano dell’inglese, Peter Pondero, Gorge Silva, John Lagomarsini e Ugo Cassìdi. Con l’aiuto di questi uomini, il detective organizzò una vera e propria centrale di spionaggio con decine di informatori sistemati nei punti strategici di Little Italy. Da soli, lavorando senza soste, Petrosino e i suoi uomini compilarono il primo schedario dei malviventi italiani in circolazione nello Stato di new York e l’Italian branch moltiplicò in modo considerevole denunce ed arresti. Nel novembre del 1906 l’Italian branch fu trasformata in Italian legion e Petrosino fu promosso tenente. Nel frattempo aveva assunto la direzione del dipartimento di polizia Theodore Bingham, un uomo molto autoritario, capace ed ambizioso. Egli si propose di costituire a New York un servizio segreto che doveva dipendere da lui solo: lui soltanto avrebbe conosciuto il nome degli uomini chiamati a farne parte; lui soltanto avrebbe preso tutte le decisioni sulle attività da svolgere.

Bingham mise a capo di questo servizio il fedele tenente Petrosino, autorizzando sia lui che i suoi uomini ad agire con ogni mezzo, anche fuori della legalità. Si trattava, in poche parole, di organizzare una squadra di agenti liberi di dare la caccia ai malviventi senza dover sottostare alle complesse regole previste dalla Costituzione americana. Malgrado la decisione del comune di negargli i fondi necessari, egli ottenne un finanziamento da privati cittadini, da enti e organizzazioni, mediante una sottoscrizione segreta. Tutto questo accadeva alla fine del Dicembre del 1908. Ai primi di gennaio dell’anno successivo, Giuseppe Petrosino fu avvertito direttamente da Bingham che doveva prepararsi a compiere un viaggio in Italia. L’impresa che gli era stata affidata non era delle più comode. Secondo le istruzioni di Bingham, egli doveva fingere con le autorità italiane di essere incaricato dal suo governo di svolgere un’inchiesta di carattere generale, mentre in realtà doveva costituire una rete informativa segreta che avrebbe operato in contatto diretto con la polizia americana e all’insaputa di quella italiana. Si trattava, insomma, di un’operazione di spionaggio, che gli italiani non avrebbero sicuramente gradito qualora ne fossero venuti a conoscenza. La sera di venerdì 12 Marzo 1909, Piazza Marina, a Palermo, era buia e deserta. Giuseppe Petrosino, con la sua corpulenta figura ben chiusa nell’ampio soprabito che gli giungeva fin quasi ai piedi, percorse a passo svelto i 250 metri che separavano l’Hotel De France dove alloggiava dal Caffè Oreto. L’interno del locale era affollato di persone che sostavano in piedi davanti al banco. La sala del ristorante, invece, era quasi vuota e il detective andò a sedersi ad un tavolo d’angolo con le spalle rivolte verso la parete. Da lì poteva dominare l’intero ambiente. Ordinò subito la cena: pasta al pomodoro, pesce arrosto, patate fritte, formaggio col pepe, frutta e mezzo litro di vino. Mangiò con molto appetito. Era al formaggio quando due uomini entrarono nel locale e si guardarono intorno come se cercassero qualcuno. Un cameriere li vide avvicinarsi al poliziotto, essi parlarono con lui restando in piedi e fu un colloquio brevissimo. Poi Petrosino li licenziò con un gesto della mano che poteva significare: “Vi raggiungo subito”. Erano le 20 e 45, appena fuori Petrosino si diresse verso un punto evidentemente prestabilito con i due sconosciuti, rasentando la cancellata del giardino Garibaldi. Percorrerà esattamente 207 metri. Circa 5 minuti dopo, quattro colpi di pistola, di cui tre simultanei e uno isolato, rompevano fragorosamente il silenzio che gravava su Piazza Marina. Joe Petrosino era morto.
Vito Cascio Ferro, l’uomo che trapiantò nel Nuovo Mondo la struttura della mafia siciliana, si era liberato del suo acerrimo nemico, che non riuscì a impedire che il seme da lui portato in terra americana germogliasse rigogliosamente.
Estate 1943. Crollato il fascismo, con l’esercito alleato che risaliva la penisola italiana e le “fortezze volanti” che non davano tregua, le autorità carcerarie del carcere di Pozzuoli, troppo esposto ai bombardamenti, avevano ordinato lo sgombero. In poche ore tutti i detenuti furono trasferiti, tranne uno: don Vito, che fu dimenticato nella sua cella... morì di sete e di terrore, nel penitenziario lugubre e deserto.

lunedì 8 agosto 2011

Marcinelle, sciagura del lavoro e dell'emigrazione

Ricorre oggi il 55º anniversario della strage di Marcinelle. Era la mattina dell’8 agosto 1956, quando un terribile incidente nella miniera di carbone "Bois du Cazier" a Marcinelle in Belgio, causò la morte di 262 minatori, tra cui 136 italiani. Quella di Marcinelle è una ferita ancora aperta perché ricorda un’epoca buia della nostra storia quando si praticava la vergognosa compravendita uomini-carbone. Il protocollo d’intesa tra il governo italiano e belga, datato 23 giugno 1946, prevedeva l’invio di 50.000 lavoratori in cambio della fornitura di carbone a prezzo di favore. La situazione di indigenza diffusa, prodotto del recente conflitto mondiale, e l’illusione della “terra promessa”, alimentata da una subdola ed ingannevole propaganda, spinse molti italiani a prendere la strada per il nord Europa. Giunti in Belgio, gli italiani trovarono solo discriminazione e sfruttamento. Il sogno di un futuro migliore si spezzò definitamente l’8 agosto del 1956 a 1.000 metri sotto terra. Per non dimenticare il sacrificio dei nostri connazionali il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha scritto un messaggio: “Il tempo non attenua il ricordo di una sciagura che è divenuta simbolo del sacrificio e della nobiltà del lavoro italiano in Europa e nel mondo. La memoria dei duecentosessantadue lavoratori che persero la vita a Marcinelle, tra i quali centotrentasei connazionali, ci deve in particolare esortare a mantenere alta la guardia sul tema della sicurezza del lavoro, la cui attualità permane immutata nonostante gli indubbi progressi”. Il presidente della Camera, Gianfranco Fini ha auspicato che: “il ricordo di Marcinelle, simbolo dell'emigrazione dei nostri connazionali alla ricerca di un lavoro e di prospettive di vita più favorevoli per le loro famiglie possa contribuire a diffondere tra le giovani generazioni i valori dell'accoglienza e della solidarietà, promuovendo il rispetto della dignità della persona e dei suoi diritti, che sono fondamento del nostro sistema costituzionale e dell'ordinamento europeo”.

giovedì 4 agosto 2011

Giuseppe Garibaldi, l'eroe dei due mondi

di Domenico Latino

Generale, generale stanco, dal respiro affannoso, solo, tradito, ingenuo deluso, generale dai sospiri pesanti, dai lunghi silenzi, dai lontani ricordi. Cavaliere errante, comandante battagliero, costretto su una carrozzina, coperto da contraddizioni ed errori, abbagli e difetti ; ondeggi, disperi, dai tormento alla tua voglia di sopravvivere, hai paura della morte? Dimentichi di essere stato l’Eroe dei Due Mondi? Generale, inebriato dai profumi mediterranei, ramingo condottiero di enormi masse di granito modellate dai venti, mitici mostri marini della tua Caprera, sei lì, prepotente figura di un anziano generale. I tuoi chiari occhi cangianti, la mano tesa marcata di segni scuri, le unghie curate, le spalle curve coperte da uno scialle sotto il quale si intravede la camicia…rossa. Ti scorgo, già sveglio all’alba, dalla finestra, sei diventato emotivo, per un nulla ti metti a piangere, sei entrato tuo malgrado nei panni del predicatore verboso, del gazzettiere polemista, inondi l’Italia di articoli, lettere e proclami per ripetere sempre le solite cose: che gli uomini di governo fanno a gara a chi governa peggio, che bisogna mettere al bando la guerra, che per educare gli italiani ci vuole un dittatore; ma la dittatura non uccide la libertà? Forse un dittatore non va confuso con un tiranno, basta scegliere un uomo onesto, integro. Perché non dici che quest’uomo onesto deve chiamarsi Garibaldi? A letto, nel gran freddo della vecchiaia, mentre faticosamente riempi quei fogli di una incerta scrittura a matita, lo pensi. Invecchi a vista d’occhio, si acutizza l’artrite, i dolori straziano le tue povere ossa, perché insisti nella tua forsennata attività epistolare? Sei a letto, un tavolo dall’asse opportunamente inclinata ti giunge fin sotto il mento, un fermacarte fissa i tuoi fogli e tu scrivi, contro i francesi, contro i mazziniani, contro i moderati, ma soprattutto contro i preti, “schiuma d’inferno”, il tuo anticlericalismo ha assunto caratteri ossessivi, e del resto suscita vasta eco in mezzo a un pubblico come quello italiano timorato e irreligioso, conformista e anarchico, mangiapreti, ma non laico, che vede in te un papa al rovescio. Il popolino recita: “Nelle caserme e nei campi di battaglia sarà fatta la tua volontà. Dacci le nostre munizioni quotidiane. Non indurci nella tentazione di contare il numero dei nemici. Ma liberaci dagli austriaci e dai preti”. Tu disapprovi? Certe stampe ti rappresentano crocefisso, con l’anima che esce dal corpo e vola in cielo. Un catechismo contiene passaggi come questo: “Quali sono le tre distinte persone di Garibaldi? Padre della nazione, figlio del popolo, spirito della libertà…”. Non ne arrossisci? Peppino...Peppino, l’ultimo Peppino, dal volto smagrito e pallido, dai capelli diradati, dalla barba bianca, dallo sguardo appannato. Tu, uomo assettato di battaglie e coraggiosissimo di fronte al nemico, cerchi ora la pace in casa, debole con tutte le tue donne, e ancor più con Francesca Armosino, la brutta Francesca, balia prescelta per tua figlia Teresita, gravida per la terza volta. Francesca, dalle forme rotonde, ma dal viso sgradevole e dalle gambe corte e pesanti, senza grazia, che in quel pomeriggio soffocante di scirocco, su quel covone di paglia, con le vesti discinte, non ti parve poi così brutta. Francesca che spietatamente ti fa il vuoto intorno, dalla quale ormai dipendi e ti fai servire con devozione. L’ultimo Peppino, Peppino dei romanzi, Peppino nella miseria più nera, Peppino che manca di pane ma che, sulle prime, rifiuta pensioni e donativi. L’uomo che, alla nascita del figlio Manlio, non sta in sé dalla gioia per una nuova prova di virilità, che angosciato si preoccupa per Menotti e Ricciotti, figli che se in guerra gli avevano dato molte soddisfazioni, in pace gli davano altrettanti grattacapi. Il papà che tiene a dormire nel suo letto la dolce Clelia e che rinuncia al sigaro per il piccolo Manlio, l’uomo tormentato e ansioso di ottenere l’annullamento del matrimonio con Giuseppina Raimondi, l’uomo che racconta, ripetendosi all’infinito, le avventure di Rio Grande e sul Mar del Plata, l’uomo degli ultimi viaggi: issato a bordo de “Il Forte”, sconquassato rimorchiatore, con la carrozzina, per Genova; steso sopra un letto trascinato a passi lenti da una grande carrozza, patetico ingresso a Milano; a Napoli, soggiorno tranquillo, contemplando il mare, Ischia, Procida, riuscendo a stento a sollevare la mano per ringraziare quanti lo acclamano dalla miriade di barchette radunate nella rada davanti alla villa dove alloggia; a Palermo, in treno, ripercorrendo a ritroso il trionfale itinerario calabro del ’60, viaggio disastroso per la sua salute, accolto da un’enorme folla in silenzio, come una salma. Generale e la rottura con Mazzini: “Questo uomo infallibile che non tollera osservazioni da chicchessia...che parla sempre del popolo e non lo conosce”. Generale e le “Memorie” rivedute, eliminando o minimizzando tutti gli episodi che testimoniano a favore dell’Apostolo, e perfino il primo incontro con lui. “Vita tempestosa, composta di bene e di male, come credo della maggior parte delle genti. Coscienza di aver cercato il bene sempre, per me e per i miei simili. E se ho fatto il male qualche volta, certo lo feci involontariamente…”. Ed io ti vedo Don Chisciotte, avventuriero dei deboli e dei vinti, eroe salgariano al servizio della giustizia e dell’umanità. Ti vedo, indossi sempre la camicia rossa, e i pantaloni sono quelli che ti sei cucito da te, col guardamano e il grosso ago che i marinai usano per le vele. Ma non hanno i bottoni perché non sai fare gli occhielli, e al loro posto c’è una fettuccia. Non ti lamenti più di non vedere il mare dalla tua finestra, Francesca ha fatto livellare la roccia che ne impediva la visuale da alcuni sterratori, per il tuo compleanno. Francesca ti alza, ti cambia, ti mette in bagno, ti porta nella carrozzella e tu dalla finestra che lei ti ha regalato cerchi il mare, lo trovi, lo scruti, parole d’amore cullano una giovane donna, riecheggiano nelle notti brasiliane, ti scuoti, davanti a te foglie appuntite, arbusti ramosi, fiori bianchi, bacche nere, cespugli, mirto, erica, lentisco, olivastri...c’è vento, a sinistra della strada che scende al lavatoio, il ginepro... ed il fantasma di Anita. Ti scuoti, di nuovo, un brivido ti percorre, quante avventure! Vicende memorabili, momenti felici, attimi intensi. Alzi gli occhi verso il cielo, è scuro, grigio... piove, tanti ricordi, e quanti imprevisti! ...e pensi ...ad alta voce, pensi …poi, mesto e malinconico chiedi a Donna Francesca di condurti a letto e faticosamente cominci a scrivere:
“Gli entusiasmi che scatenò il mio ritorno in Sicilia fecero impallidire, nel ricordo, quelli della Lombardia. Sembrava di essere tornati ai bei tempi della gloriosa spedizione anche perché, nelle posizioni di comando, c’erano alcuni compari di allora: Pallavicino in funzione di prefetto, Medici in quella di comandante della Guardia nazionale. Palermo era ai miei piedi e pendeva dalle mie labbra. Nessuno riusciva a capire cosa fossi venuto a fare laggiù. Il 15 luglio ci fu una parata della Guardia nazionale al Foro italico, ed io vi assistetti al posto d’onore, fra il sindaco e il prefetto. D’improvviso, alle acclamazioni che la folla mi tributava, mi alzai e risposi e l’invettiva che mossi contro Napoleone, padrone della Francia e protettore del papa provocò un’immensa ovazione: bisognava che il traditore sgombrasse Roma. Nessuno poteva più fermarmi. A Marsala, terra di felice augurio, invitai gli astanti a seguirmi e questi, che due anni prima non mi avevano seguito nemmeno a Palermo, risposero al grido di Roma o morte! Intanto, volontari affluivano da tutte le parti e sfilavano davanti alle truppe regolari che li salutavano cameratescamente. Le autorità non capivano se li dovevano considerare amici o nemici. I passanti strappavano i manifesti in cui si diceva che il governo disapprovava i miei propositi, sotto gli occhi della polizia che fingeva di non vedere. Tutti erano convinti che fosse, come nel ’60, la solita finta: la rivoluzione raccomandata dal re, che mi aiutava sotto banco fingendo di sconfessarla. Il 1 agosto, a Ficuzza, parlai ai miei tremila volontari promettendo loro fatiche, disagi, pericoli, ma per la causa del nostro Paese, raccogliendo soltanto consensi e sorrisi sulle labbra. Il 3 un proclama di Vittorio Emanuele li scoraggiava a intraprendere qualsiasi iniziativa, minacciandoli di finire sotto il rigore delle leggi. Ma nessuno si rassegnò al punto di credere che io e il re litigassimo sul serio. Ed io stesso ero il primo ad escludere che questo litigio ci fosse. Medici mi supplicò di mettermi una mano sul cuore, di pensare all’Italia, a tutto quello che si era miracolosamente fatto, e di non intraprendere la via che, secondo lui, mi avrebbe portato alla guerra civile. Altri amici accorsero a scongiurarmi. Cucchi e Turr vennero da parte del re, si precipitarono anche i deputati Calvino, Mordini e Fabrizi. Di ritorno, passando per Napoli, vi trovarono il solito La Marmora, che aveva le manette facili e li arrestò, per poi rimetterli in libertà, scusandosi, per ordine di Rattazzi. Non ci fu verso, non mi fermai. Il 20 agosto ero a Catania dopo una marcia attraverso l’isola, che rafforzò in me la convinzione che il re fosse dalla mia parte. Incontrai colonne dell’esercito regolare che mi intimarono l’alt e poi cambiarono strada per lasciarmi il passo. Quando non avevo viveri, il nemico me li dava. Erano le due del mattino quando vi entrai, ma le campane si sciolsero ugualmente e la città fu colta dal delirio. Nella rada c’erano alcune navi da guerra ma i comandanti avevano ricevuto da Torino la direttiva di agire secondo il bene del paese. L’ammiraglio Albini si consultò coi suoi subalterni e diede ordine ai suoi uomini di voltare gli occhi e i cannoni dall’altra parte. E forse, se fossi arrivato a Roma, quell’ordine avrebbe valso all’ammiraglio una promozione o una medaglia. Invece gli fu imposto di prendere su di se, con una lettera di dimissioni, la responsabilità del mancato intervento. Alle quattro del mattino del 25 agosto due piroscafi sbarcarono duemila volontari sulla costa calabra, fra Melito e capo dell’Armi, pressappoco lo stesso punto dell’altra volta. Una nave ci bombardò come allora, ma era piemontese, non borbonica. Certo, si trattava di una finta per darla a bere ai diplomatici. Incolonnai i miei uomini verso Reggio, distaccando un’avanguardia. A un tratto udimmo una scarica di fucileria. Ci fermammo sorpresi. Che succedeva? Un distaccamento di soldati regolari ci era venuto incontro,e fin qui nulla di strano: era successo anche in Sicilia. Ma avevano sparato. E quando gli gridammo che non volevamo combattere contro di loro, ch’eravamo amici, italiani, i regolari avevano ripreso a sparare. Non c’era scelta: o contrattaccarli, e sarebbe stato l’inizio di una guerra civile; o evitarli ritirandoci verso l’interno sull’Aspromonte. Scelsi senza esitare la seconda alternativa. Fu una dura deviazione. Pioveva a dirotto, i miei uomini bruscamente risvegliati a una realtà che non avevamo previsto, facili allo scoramento come lo erano stati all’entusiasmo. Non avevamo viveri, e la contrada aspra e brulla non ne offriva. Non sapevamo dove stavamo andando. Mi affidai a delle guide. La popolazione era rada e ostile, di pastori che vedevano in noi dei banditi e temevano per le loro greggi. Anche le guide, poi, risultarono nemiche. Invece di condurci direttamente alla casetta forestale dell’Aspromonte - appresi, ahimè, solo in seguito che sarebbero bastate dieci ore di marcia -, ci fecero girare intorno per quattro giorni e quattro notti. La casetta, avevano detto, era un deposito di rifornimenti. La trovammo vuota. Contai allora i miei uomini: da duemila si erano ridotti a cinquecento. Gli altri si erano sparpagliati in cerca di patate, unica risorsa di quella terra avara, e i più non tornarono. Anch’io mangiai patate mezze crude, perché non ci fu verso di appiccare il fuoco alle fascine bagnate dalla pioggia battente. Lo scontro con i soldati regolari avvenne la mattina del 29 agosto. Erano circa 3.500 bersaglieri. Li vidi da lontano. Feci arretrare i miei ai margini del bosco verso le alture, ma con l’ordine preciso di non sparare. Ero convinto che, una volta di fronte, quei soldati si sarebbero uniti a noi per marciare tutti insieme su Roma. Perciò mi misi davanti, bene in vista, la mano destra sull’elsa della sciabola, la sinistra sul fianco. I bersaglieri seguitavano ad avanzare a ventaglio. Eccoli a cinquecento metri, poi a trecento, poi a cento: ora mi vedevano benissimo, non potevano confondermi con nessun altro, ma seguitavano ad avanzare. Il momento era terribile. A un tratto risuonò uno squillo di tromba, e i bersaglieri s’inginocchiarono per aggiustare la mira delle carabine e cominciarono a sparare. Una palla mi colpì alla coscia sinistra, mi volsi ai miei per ripetere di non far fuoco. Un’altra pallottola mi raggiunse al piede destro. Ebbi una smorfia di dolore, ma feci un passo avanti in mezzo al grandinio dei proiettili. Accorse verso di me Enrico Cairoli ed io mi accasciai dicendogli che non era nulla. Mi trasportarono sotto un albero, mentre la fucileria infittiva. Ordinai allora di andar fuori al grido di Viva l’Italia! Ma il grido non fece nessun effetto. I bersaglieri lo sommersero sotto i loro spari, e allora anche i miei uomini spararono. Durò una decina di minuti, e bastarono per fare dodici morti- cinque dei nostri e sette regolari- e trentaquattro feriti: quattordici regolari e venti di noi. Poi tutti si trovarono intorno all’albero dove giacevo, con un mezzo toscano in bocca. Tre dottori della mia colonna - Ripari, Basile e Albanese- stavano esaminando le mie ferite. I regolari offrivano sigarette ai miei che non ne avevano, i quali si sdebitavano offrendo ai regolari i fiammiferi accesi. Ci si riconobbe fra paesani, i dialetti s’incrociarono. Finalmente giunse un regio ufficiale, il tenente Rotondo che, senza scendere da cavallo, senza nemmeno fare un saluto, e soprattutto senza sentire il ridicolo delle proprie parole in quella situazione, mi intimò la resa. Gli risposi che erano da trent’anni che sapevo cosa fosse la guerra, e assai meglio di lui, e rivoltomi ai miei ufficiali lo feci disarmare. Il vincitore Rotondo si lasciò strappare di mano la sciabola, e chissà quali altre brutte figure avrebbe fatto, se in quel momento non fosse sopraggiunto il colonnello Pallavicini. Questi scese da cavallo, si tolse il berretto, si chinò verso di me, e mi intimò anch’egli la resa, ma all’orecchio. Soddisfatto annuì. La discesa su Scilla, nella notte tra il 29 e il 30, fu penosa. Steso su una barella rudimentale, coperto da diversi giacconi, fumavo un sigaro dietro l’altro, mentre un ufficiale mi faceva gocciolare acqua fresca sulle ferite. Il corteo era preceduto da alcuni pirofori che illuminavano il sentiero con torce accese. A mezzanotte si fece sosta nella capanna del pastore Vincenzo, che mi aveva aiutato già nel ’60. Bevvi brodo di capra e riposai per qualche ora. All’alba del trenta ci si rimise in cammino. Il tempo si era rimesso al bello, e nel cielo libero da nuvole il sole ardeva. Per ripararmi, i portatori composero sulla mia testa un ombrello con rami d’alloro. Sembrava la processione del Corpus Domini. Chiesi a Pallavicini di essere imbarcato su una nave inglese e il colonnello mi rispose con un evasivo Si vedrà..ma quando fummo vicini al mare, vidi che ad aspettarmi c’era la pirofregata piemontese Duca di Genova..mi sdegnai parecchio. Pallavicini si strinse nelle spalle. Obbediva agli ordini, rispose, non sapeva che farci. Mentre mi traghettavano a bordo scorsi, ritto sul cassero di una nave vicina, con la mano destra sull’elsa della spada in una posa da vittorioso, il comandante di quella gloriosa spedizione: il generale Cialdini. Costui non mi salutò, non si tolse nemmeno la sigaretta di bocca. Decisamente, i generali dell’esercito piemontese vincevano di rado...ma in compenso vincevano male”.Sei stanco ormai, chiudi gli occhi, la testa affonda sul guanciale, è sera, una brezza improvvisa spalanca la finestra ed è un volteggiare di fogli...quante parole, quante memorie…1862, li stregasti col tuo fascino, il governo li confuse con le sue ambiguità, la parte rivoluzionaria li sedusse con le sue audacie: gli italiani ti sono grati comunque Generale Giuseppe Garibaldi.

martedì 2 agosto 2011

4^ Giornata dei Veneti nel Mondo - Festa dell'emigrante

Il 5-6-7 Agosto si terrà a Porto Viro (RO) la 4^ Giornata dei Veneti nel Mondo - Festa dell'emigrante

Nelle giornate del 5-6-7 Agosto p.v. , a Porto Viro, in provincia di Rovigo, si celebrerà la IV^ Giornata dei veneti nel mondo che vedrà la partecipazione di numerose delegazioni di veneti provenienti da ogni parte del mondo.

L'importante evento, istituito con legge regionale per ricordare gli emigrati Veneti che con il loro lavoro e l’opera quotidiana hanno fatto conoscere il Veneto nel mondo, sarà organizzato dal Comune di Porto Viro.


Clicca sull'immagine per leggere il programma

lunedì 1 agosto 2011

Radio SBS, la voce italiana a Melbourne

di Francesca Monti

L’Australia è una terra bellissima, che ha dato ospitalità a tanti nostri connazionali che in passato hanno cercato fortuna e lavoro in questo Paese così lontano. Si dice che i primi italiani che giunsero nel Quinto Continente furono i marinai Giacomo Matra e Antonio Ponto, che erano a bordo della nave Endeavour guidata dal capitano James Cook, durante il suo viaggio alla scoperta degli Antipodi nel 1770. Il primo connazionale che si stabilì in Australia fu invece il siciliano Giuseppe Tusa, uno dei galeotti trasportati dalla Prima Flotta nel 1788, che visse a Sydney, si sposò ed ebbe quattro figli. Tantissimi altri italiani partirono per il Quinto Continente dopo la Seconda Guerra Mondiale. Oggi il gruppo più numeroso di emigranti non anglosassoni in Australia è formato proprio dai nostri connazionali, mentre l’italiano è la lingua più parlata dopo l’inglese. Per permettere agli immigrati di integrarsi nella società australiana è nata SBS Radio (www.sbs.com.au/yourlanguage/italian), che attraverso due redazioni, situate a Sydneu e a Melbourne, trasmette i programmi in 68 lingue differenti. La programmazione di SBS è molto varia, spazia dalla cultura all’attualità, dalla politica interna a quella estera, dalla scienza alla medicina, dalla musica alla gastronomia, dalla cronaca locale e internazionale alle interviste con ospiti provenienti da tutto il mondo, dallo spettacolo fino allo sport. Da agosto a maggio, di notte, SBS Radio trasmette in diretta le partite del campionato italiano di calcio di Serie A. Nella redazione di SBS lavorano molti giornalisti di origine italiana, tra questi il giovane canturino Carlo Oreglia. Laureato in Lettere, nel 2005 si è trasferito a Melbourne e in quest’intervista racconta la sua storia e spiega quanto la realtà australiana sia profondamente diversa da quella italiana.

Quando hai iniziato a lavorare a Radio SBS?
“Ho iniziato nel 2004, facendo uno stage per qualche mese. Ai tempi ero in Australia ad insegnare l’italiano, e alla scadenza del mio contratto sono rimasto quattro mesi a Melbourne per lavorare in radio. Una volta tornato in Italia, ho continuato a collaborare, poi a fine 2005 sono ritornato”.

Che consigli daresti ad un ragazzo/a che volesse intraprendere dopo la laurea, la tua stessa esperienza, trasferendosi in Australia?
“Nessun consiglio, che poi mi rubano il posto!!! La cosa migliore è, secondo me, venire in Australia per qualche mese o per un anno utilizzando il visto vacanza-lavoro (working holiday visa) che dà la possibilità, a tutti i ragazzi sotto il 30 anni, di fermarsi a lavorare legalmente per 12 mesi. Da lì, cercarsi qualche lavoretto per campare (cameriere, insegnante di italiano, cose semplici) e guardarsi intorno, nei media per fare qualche internship. SBS offre regolarmente internship (non pagate, sottolineo, ma grande esperienza)”.

Quali analogie/differenze hai riscontrato tra l’Australia e l’Italia riguardo allo stile di vita degli abitanti, il comportamento nei confronti degli stranieri, il problema dell’occupazione?
“Sicuramente c’è più abitudine agli stranieri, in quanto lo zoccolo duro della popolazione è immigrata. Gli italiani ad esempio sono il secondo ceppo linguistico dopo l’inglese e colonna della comunità. Il problema dell’occupazione è meno serio che in Italia, più possibilità, flessibilità anche per l’impiegato, non solo per chi impiega come avviene in Italia. Anche se va detto che alcune leggi passate dal governo liberale, chiamate WorkChoice, hanno dato molti poteri ai datori di lavoro permettendogli di tagliare paghe maggiorate nei giorni festivi o per orari fuori dai turni 9-17”.

Hai mai nostalgia dell’Italia e della tua città?
“Nostalgia non proprio, però ogni tanto mi manca vedere Cantù, gli amici e naturalmente la famiglia”.

Quali sono le tre cose che più ti affascinano dell’Australia?
“A parte la natura, direi il senso di libertà e la sensazione che puoi fare quello che vuoi se ti impegni a fondo, la versione down under dell’american dream. In più è una società giovane, non dominata dalla gerontocrazia che attanaglia l’Italia. Anche solo guardando la tv, la presenza giovani-vecchi è bilanciata ma forse con una predominanza di volti giovani, invece in Italia è un ospizio unico, specchio purtroppo della società invecchiata”.