di Domenico Latino
Generale, generale stanco, dal respiro affannoso, solo, tradito, ingenuo deluso, generale dai sospiri pesanti, dai lunghi silenzi, dai lontani ricordi. Cavaliere errante, comandante battagliero, costretto su una carrozzina, coperto da contraddizioni ed errori, abbagli e difetti ; ondeggi, disperi, dai tormento alla tua voglia di sopravvivere, hai paura della morte? Dimentichi di essere stato l’Eroe dei Due Mondi? Generale, inebriato dai profumi mediterranei, ramingo condottiero di enormi masse di granito modellate dai venti, mitici mostri marini della tua Caprera, sei lì, prepotente figura di un anziano generale. I tuoi chiari occhi cangianti, la mano tesa marcata di segni scuri, le unghie curate, le spalle curve coperte da uno scialle sotto il quale si intravede la camicia…rossa. Ti scorgo, già sveglio all’alba, dalla finestra, sei diventato emotivo, per un nulla ti metti a piangere, sei entrato tuo malgrado nei panni del predicatore verboso, del gazzettiere polemista, inondi l’Italia di articoli, lettere e proclami per ripetere sempre le solite cose: che gli uomini di governo fanno a gara a chi governa peggio, che bisogna mettere al bando la guerra, che per educare gli italiani ci vuole un dittatore; ma la dittatura non uccide la libertà? Forse un dittatore non va confuso con un tiranno, basta scegliere un uomo onesto, integro. Perché non dici che quest’uomo onesto deve chiamarsi Garibaldi? A letto, nel gran freddo della vecchiaia, mentre faticosamente riempi quei fogli di una incerta scrittura a matita, lo pensi. Invecchi a vista d’occhio, si acutizza l’artrite, i dolori straziano le tue povere ossa, perché insisti nella tua forsennata attività epistolare? Sei a letto, un tavolo dall’asse opportunamente inclinata ti giunge fin sotto il mento, un fermacarte fissa i tuoi fogli e tu scrivi, contro i francesi, contro i mazziniani, contro i moderati, ma soprattutto contro i preti, “schiuma d’inferno”, il tuo anticlericalismo ha assunto caratteri ossessivi, e del resto suscita vasta eco in mezzo a un pubblico come quello italiano timorato e irreligioso, conformista e anarchico, mangiapreti, ma non laico, che vede in te un papa al rovescio. Il popolino recita: “Nelle caserme e nei campi di battaglia sarà fatta la tua volontà. Dacci le nostre munizioni quotidiane. Non indurci nella tentazione di contare il numero dei nemici. Ma liberaci dagli austriaci e dai preti”. Tu disapprovi? Certe stampe ti rappresentano crocefisso, con l’anima che esce dal corpo e vola in cielo. Un catechismo contiene passaggi come questo: “Quali sono le tre distinte persone di Garibaldi? Padre della nazione, figlio del popolo, spirito della libertà…”. Non ne arrossisci? Peppino...Peppino, l’ultimo Peppino, dal volto smagrito e pallido, dai capelli diradati, dalla barba bianca, dallo sguardo appannato. Tu, uomo assettato di battaglie e coraggiosissimo di fronte al nemico, cerchi ora la pace in casa, debole con tutte le tue donne, e ancor più con Francesca Armosino, la brutta Francesca, balia prescelta per tua figlia Teresita, gravida per la terza volta. Francesca, dalle forme rotonde, ma dal viso sgradevole e dalle gambe corte e pesanti, senza grazia, che in quel pomeriggio soffocante di scirocco, su quel covone di paglia, con le vesti discinte, non ti parve poi così brutta. Francesca che spietatamente ti fa il vuoto intorno, dalla quale ormai dipendi e ti fai servire con devozione. L’ultimo Peppino, Peppino dei romanzi, Peppino nella miseria più nera, Peppino che manca di pane ma che, sulle prime, rifiuta pensioni e donativi. L’uomo che, alla nascita del figlio Manlio, non sta in sé dalla gioia per una nuova prova di virilità, che angosciato si preoccupa per Menotti e Ricciotti, figli che se in guerra gli avevano dato molte soddisfazioni, in pace gli davano altrettanti grattacapi. Il papà che tiene a dormire nel suo letto la dolce Clelia e che rinuncia al sigaro per il piccolo Manlio, l’uomo tormentato e ansioso di ottenere l’annullamento del matrimonio con Giuseppina Raimondi, l’uomo che racconta, ripetendosi all’infinito, le avventure di Rio Grande e sul Mar del Plata, l’uomo degli ultimi viaggi: issato a bordo de “Il Forte”, sconquassato rimorchiatore, con la carrozzina, per Genova; steso sopra un letto trascinato a passi lenti da una grande carrozza, patetico ingresso a Milano; a Napoli, soggiorno tranquillo, contemplando il mare, Ischia, Procida, riuscendo a stento a sollevare la mano per ringraziare quanti lo acclamano dalla miriade di barchette radunate nella rada davanti alla villa dove alloggia; a Palermo, in treno, ripercorrendo a ritroso il trionfale itinerario calabro del ’60, viaggio disastroso per la sua salute, accolto da un’enorme folla in silenzio, come una salma. Generale e la rottura con Mazzini: “Questo uomo infallibile che non tollera osservazioni da chicchessia...che parla sempre del popolo e non lo conosce”. Generale e le “Memorie” rivedute, eliminando o minimizzando tutti gli episodi che testimoniano a favore dell’Apostolo, e perfino il primo incontro con lui. “Vita tempestosa, composta di bene e di male, come credo della maggior parte delle genti. Coscienza di aver cercato il bene sempre, per me e per i miei simili. E se ho fatto il male qualche volta, certo lo feci involontariamente…”. Ed io ti vedo Don Chisciotte, avventuriero dei deboli e dei vinti, eroe salgariano al servizio della giustizia e dell’umanità. Ti vedo, indossi sempre la camicia rossa, e i pantaloni sono quelli che ti sei cucito da te, col guardamano e il grosso ago che i marinai usano per le vele. Ma non hanno i bottoni perché non sai fare gli occhielli, e al loro posto c’è una fettuccia. Non ti lamenti più di non vedere il mare dalla tua finestra, Francesca ha fatto livellare la roccia che ne impediva la visuale da alcuni sterratori, per il tuo compleanno. Francesca ti alza, ti cambia, ti mette in bagno, ti porta nella carrozzella e tu dalla finestra che lei ti ha regalato cerchi il mare, lo trovi, lo scruti, parole d’amore cullano una giovane donna, riecheggiano nelle notti brasiliane, ti scuoti, davanti a te foglie appuntite, arbusti ramosi, fiori bianchi, bacche nere, cespugli, mirto, erica, lentisco, olivastri...c’è vento, a sinistra della strada che scende al lavatoio, il ginepro... ed il fantasma di Anita. Ti scuoti, di nuovo, un brivido ti percorre, quante avventure! Vicende memorabili, momenti felici, attimi intensi. Alzi gli occhi verso il cielo, è scuro, grigio... piove, tanti ricordi, e quanti imprevisti! ...e pensi ...ad alta voce, pensi …poi, mesto e malinconico chiedi a Donna Francesca di condurti a letto e faticosamente cominci a scrivere:“Gli entusiasmi che scatenò il mio ritorno in Sicilia fecero impallidire, nel ricordo, quelli della Lombardia. Sembrava di essere tornati ai bei tempi della gloriosa spedizione anche perché, nelle posizioni di comando, c’erano alcuni compari di allora: Pallavicino in funzione di prefetto, Medici in quella di comandante della Guardia nazionale. Palermo era ai miei piedi e pendeva dalle mie labbra. Nessuno riusciva a capire cosa fossi venuto a fare laggiù. Il 15 luglio ci fu una parata della Guardia nazionale al Foro italico, ed io vi assistetti al posto d’onore, fra il sindaco e il prefetto. D’improvviso, alle acclamazioni che la folla mi tributava, mi alzai e risposi e l’invettiva che mossi contro Napoleone, padrone della Francia e protettore del papa provocò un’immensa ovazione: bisognava che il traditore sgombrasse Roma. Nessuno poteva più fermarmi. A Marsala, terra di felice augurio, invitai gli astanti a seguirmi e questi, che due anni prima non mi avevano seguito nemmeno a Palermo, risposero al grido di Roma o morte! Intanto, volontari affluivano da tutte le parti e sfilavano davanti alle truppe regolari che li salutavano cameratescamente. Le autorità non capivano se li dovevano considerare amici o nemici. I passanti strappavano i manifesti in cui si diceva che il governo disapprovava i miei propositi, sotto gli occhi della polizia che fingeva di non vedere. Tutti erano convinti che fosse, come nel ’60, la solita finta: la rivoluzione raccomandata dal re, che mi aiutava sotto banco fingendo di sconfessarla. Il 1 agosto, a Ficuzza, parlai ai miei tremila volontari promettendo loro fatiche, disagi, pericoli, ma per la causa del nostro Paese, raccogliendo soltanto consensi e sorrisi sulle labbra. Il 3 un proclama di Vittorio Emanuele li scoraggiava a intraprendere qualsiasi iniziativa, minacciandoli di finire sotto il rigore delle leggi. Ma nessuno si rassegnò al punto di credere che io e il re litigassimo sul serio. Ed io stesso ero il primo ad escludere che questo litigio ci fosse. Medici mi supplicò di mettermi una mano sul cuore, di pensare all’Italia, a tutto quello che si era miracolosamente fatto, e di non intraprendere la via che, secondo lui, mi avrebbe portato alla guerra civile. Altri amici accorsero a scongiurarmi. Cucchi e Turr vennero da parte del re, si precipitarono anche i deputati Calvino, Mordini e Fabrizi. Di ritorno, passando per Napoli, vi trovarono il solito La Marmora, che aveva le manette facili e li arrestò, per poi rimetterli in libertà, scusandosi, per ordine di Rattazzi. Non ci fu verso, non mi fermai. Il 20 agosto ero a Catania dopo una marcia attraverso l’isola, che rafforzò in me la convinzione che il re fosse dalla mia parte. Incontrai colonne dell’esercito regolare che mi intimarono l’alt e poi cambiarono strada per lasciarmi il passo. Quando non avevo viveri, il nemico me li dava. Erano le due del mattino quando vi entrai, ma le campane si sciolsero ugualmente e la città fu colta dal delirio. Nella rada c’erano alcune navi da guerra ma i comandanti avevano ricevuto da Torino la direttiva di agire secondo il bene del paese. L’ammiraglio Albini si consultò coi suoi subalterni e diede ordine ai suoi uomini di voltare gli occhi e i cannoni dall’altra parte. E forse, se fossi arrivato a Roma, quell’ordine avrebbe valso all’ammiraglio una promozione o una medaglia. Invece gli fu imposto di prendere su di se, con una lettera di dimissioni, la responsabilità del mancato intervento. Alle quattro del mattino del 25 agosto due piroscafi sbarcarono duemila volontari sulla costa calabra, fra Melito e capo dell’Armi, pressappoco lo stesso punto dell’altra volta. Una nave ci bombardò come allora, ma era piemontese, non borbonica. Certo, si trattava di una finta per darla a bere ai diplomatici. Incolonnai i miei uomini verso Reggio, distaccando un’avanguardia. A un tratto udimmo una scarica di fucileria. Ci fermammo sorpresi. Che succedeva? Un distaccamento di soldati regolari ci era venuto incontro,e fin qui nulla di strano: era successo anche in Sicilia. Ma avevano sparato. E quando gli gridammo che non volevamo combattere contro di loro, ch’eravamo amici, italiani, i regolari avevano ripreso a sparare. Non c’era scelta: o contrattaccarli, e sarebbe stato l’inizio di una guerra civile; o evitarli ritirandoci verso l’interno sull’Aspromonte. Scelsi senza esitare la seconda alternativa. Fu una dura deviazione. Pioveva a dirotto, i miei uomini bruscamente risvegliati a una realtà che non avevamo previsto, facili allo scoramento come lo erano stati all’entusiasmo. Non avevamo viveri, e la contrada aspra e brulla non ne offriva. Non sapevamo dove stavamo andando. Mi affidai a delle guide. La popolazione era rada e ostile, di pastori che vedevano in noi dei banditi e temevano per le loro greggi. Anche le guide, poi, risultarono nemiche. Invece di condurci direttamente alla casetta forestale dell’Aspromonte - appresi, ahimè, solo in seguito che sarebbero bastate dieci ore di marcia -, ci fecero girare intorno per quattro giorni e quattro notti. La casetta, avevano detto, era un deposito di rifornimenti. La trovammo vuota. Contai allora i miei uomini: da duemila si erano ridotti a cinquecento. Gli altri si erano sparpagliati in cerca di patate, unica risorsa di quella terra avara, e i più non tornarono. Anch’io mangiai patate mezze crude, perché non ci fu verso di appiccare il fuoco alle fascine bagnate dalla pioggia battente. Lo scontro con i soldati regolari avvenne la mattina del 29 agosto. Erano circa 3.500 bersaglieri. Li vidi da lontano. Feci arretrare i miei ai margini del bosco verso le alture, ma con l’ordine preciso di non sparare. Ero convinto che, una volta di fronte, quei soldati si sarebbero uniti a noi per marciare tutti insieme su Roma. Perciò mi misi davanti, bene in vista, la mano destra sull’elsa della sciabola, la sinistra sul fianco. I bersaglieri seguitavano ad avanzare a ventaglio. Eccoli a cinquecento metri, poi a trecento, poi a cento: ora mi vedevano benissimo, non potevano confondermi con nessun altro, ma seguitavano ad avanzare. Il momento era terribile. A un tratto risuonò uno squillo di tromba, e i bersaglieri s’inginocchiarono per aggiustare la mira delle carabine e cominciarono a sparare. Una palla mi colpì alla coscia sinistra, mi volsi ai miei per ripetere di non far fuoco. Un’altra pallottola mi raggiunse al piede destro. Ebbi una smorfia di dolore, ma feci un passo avanti in mezzo al grandinio dei proiettili. Accorse verso di me Enrico Cairoli ed io mi accasciai dicendogli che non era nulla. Mi trasportarono sotto un albero, mentre la fucileria infittiva. Ordinai allora di andar fuori al grido di Viva l’Italia! Ma il grido non fece nessun effetto. I bersaglieri lo sommersero sotto i loro spari, e allora anche i miei uomini spararono. Durò una decina di minuti, e bastarono per fare dodici morti- cinque dei nostri e sette regolari- e trentaquattro feriti: quattordici regolari e venti di noi. Poi tutti si trovarono intorno all’albero dove giacevo, con un mezzo toscano in bocca. Tre dottori della mia colonna - Ripari, Basile e Albanese- stavano esaminando le mie ferite. I regolari offrivano sigarette ai miei che non ne avevano, i quali si sdebitavano offrendo ai regolari i fiammiferi accesi. Ci si riconobbe fra paesani, i dialetti s’incrociarono. Finalmente giunse un regio ufficiale, il tenente Rotondo che, senza scendere da cavallo, senza nemmeno fare un saluto, e soprattutto senza sentire il ridicolo delle proprie parole in quella situazione, mi intimò la resa. Gli risposi che erano da trent’anni che sapevo cosa fosse la guerra, e assai meglio di lui, e rivoltomi ai miei ufficiali lo feci disarmare. Il vincitore Rotondo si lasciò strappare di mano la sciabola, e chissà quali altre brutte figure avrebbe fatto, se in quel momento non fosse sopraggiunto il colonnello Pallavicini. Questi scese da cavallo, si tolse il berretto, si chinò verso di me, e mi intimò anch’egli la resa, ma all’orecchio. Soddisfatto annuì. La discesa su Scilla, nella notte tra il 29 e il 30, fu penosa. Steso su una barella rudimentale, coperto da diversi giacconi, fumavo un sigaro dietro l’altro, mentre un ufficiale mi faceva gocciolare acqua fresca sulle ferite. Il corteo era preceduto da alcuni pirofori che illuminavano il sentiero con torce accese. A mezzanotte si fece sosta nella capanna del pastore Vincenzo, che mi aveva aiutato già nel ’60. Bevvi brodo di capra e riposai per qualche ora. All’alba del trenta ci si rimise in cammino. Il tempo si era rimesso al bello, e nel cielo libero da nuvole il sole ardeva. Per ripararmi, i portatori composero sulla mia testa un ombrello con rami d’alloro. Sembrava la processione del Corpus Domini. Chiesi a Pallavicini di essere imbarcato su una nave inglese e il colonnello mi rispose con un evasivo Si vedrà..ma quando fummo vicini al mare, vidi che ad aspettarmi c’era la pirofregata piemontese Duca di Genova..mi sdegnai parecchio. Pallavicini si strinse nelle spalle. Obbediva agli ordini, rispose, non sapeva che farci. Mentre mi traghettavano a bordo scorsi, ritto sul cassero di una nave vicina, con la mano destra sull’elsa della spada in una posa da vittorioso, il comandante di quella gloriosa spedizione: il generale Cialdini. Costui non mi salutò, non si tolse nemmeno la sigaretta di bocca. Decisamente, i generali dell’esercito piemontese vincevano di rado...ma in compenso vincevano male”.Sei stanco ormai, chiudi gli occhi, la testa affonda sul guanciale, è sera, una brezza improvvisa spalanca la finestra ed è un volteggiare di fogli...quante parole, quante memorie…1862, li stregasti col tuo fascino, il governo li confuse con le sue ambiguità, la parte rivoluzionaria li sedusse con le sue audacie: gli italiani ti sono grati comunque Generale Giuseppe Garibaldi.
Generale, generale stanco, dal respiro affannoso, solo, tradito, ingenuo deluso, generale dai sospiri pesanti, dai lunghi silenzi, dai lontani ricordi. Cavaliere errante, comandante battagliero, costretto su una carrozzina, coperto da contraddizioni ed errori, abbagli e difetti ; ondeggi, disperi, dai tormento alla tua voglia di sopravvivere, hai paura della morte? Dimentichi di essere stato l’Eroe dei Due Mondi? Generale, inebriato dai profumi mediterranei, ramingo condottiero di enormi masse di granito modellate dai venti, mitici mostri marini della tua Caprera, sei lì, prepotente figura di un anziano generale. I tuoi chiari occhi cangianti, la mano tesa marcata di segni scuri, le unghie curate, le spalle curve coperte da uno scialle sotto il quale si intravede la camicia…rossa. Ti scorgo, già sveglio all’alba, dalla finestra, sei diventato emotivo, per un nulla ti metti a piangere, sei entrato tuo malgrado nei panni del predicatore verboso, del gazzettiere polemista, inondi l’Italia di articoli, lettere e proclami per ripetere sempre le solite cose: che gli uomini di governo fanno a gara a chi governa peggio, che bisogna mettere al bando la guerra, che per educare gli italiani ci vuole un dittatore; ma la dittatura non uccide la libertà? Forse un dittatore non va confuso con un tiranno, basta scegliere un uomo onesto, integro. Perché non dici che quest’uomo onesto deve chiamarsi Garibaldi? A letto, nel gran freddo della vecchiaia, mentre faticosamente riempi quei fogli di una incerta scrittura a matita, lo pensi. Invecchi a vista d’occhio, si acutizza l’artrite, i dolori straziano le tue povere ossa, perché insisti nella tua forsennata attività epistolare? Sei a letto, un tavolo dall’asse opportunamente inclinata ti giunge fin sotto il mento, un fermacarte fissa i tuoi fogli e tu scrivi, contro i francesi, contro i mazziniani, contro i moderati, ma soprattutto contro i preti, “schiuma d’inferno”, il tuo anticlericalismo ha assunto caratteri ossessivi, e del resto suscita vasta eco in mezzo a un pubblico come quello italiano timorato e irreligioso, conformista e anarchico, mangiapreti, ma non laico, che vede in te un papa al rovescio. Il popolino recita: “Nelle caserme e nei campi di battaglia sarà fatta la tua volontà. Dacci le nostre munizioni quotidiane. Non indurci nella tentazione di contare il numero dei nemici. Ma liberaci dagli austriaci e dai preti”. Tu disapprovi? Certe stampe ti rappresentano crocefisso, con l’anima che esce dal corpo e vola in cielo. Un catechismo contiene passaggi come questo: “Quali sono le tre distinte persone di Garibaldi? Padre della nazione, figlio del popolo, spirito della libertà…”. Non ne arrossisci? Peppino...Peppino, l’ultimo Peppino, dal volto smagrito e pallido, dai capelli diradati, dalla barba bianca, dallo sguardo appannato. Tu, uomo assettato di battaglie e coraggiosissimo di fronte al nemico, cerchi ora la pace in casa, debole con tutte le tue donne, e ancor più con Francesca Armosino, la brutta Francesca, balia prescelta per tua figlia Teresita, gravida per la terza volta. Francesca, dalle forme rotonde, ma dal viso sgradevole e dalle gambe corte e pesanti, senza grazia, che in quel pomeriggio soffocante di scirocco, su quel covone di paglia, con le vesti discinte, non ti parve poi così brutta. Francesca che spietatamente ti fa il vuoto intorno, dalla quale ormai dipendi e ti fai servire con devozione. L’ultimo Peppino, Peppino dei romanzi, Peppino nella miseria più nera, Peppino che manca di pane ma che, sulle prime, rifiuta pensioni e donativi. L’uomo che, alla nascita del figlio Manlio, non sta in sé dalla gioia per una nuova prova di virilità, che angosciato si preoccupa per Menotti e Ricciotti, figli che se in guerra gli avevano dato molte soddisfazioni, in pace gli davano altrettanti grattacapi. Il papà che tiene a dormire nel suo letto la dolce Clelia e che rinuncia al sigaro per il piccolo Manlio, l’uomo tormentato e ansioso di ottenere l’annullamento del matrimonio con Giuseppina Raimondi, l’uomo che racconta, ripetendosi all’infinito, le avventure di Rio Grande e sul Mar del Plata, l’uomo degli ultimi viaggi: issato a bordo de “Il Forte”, sconquassato rimorchiatore, con la carrozzina, per Genova; steso sopra un letto trascinato a passi lenti da una grande carrozza, patetico ingresso a Milano; a Napoli, soggiorno tranquillo, contemplando il mare, Ischia, Procida, riuscendo a stento a sollevare la mano per ringraziare quanti lo acclamano dalla miriade di barchette radunate nella rada davanti alla villa dove alloggia; a Palermo, in treno, ripercorrendo a ritroso il trionfale itinerario calabro del ’60, viaggio disastroso per la sua salute, accolto da un’enorme folla in silenzio, come una salma. Generale e la rottura con Mazzini: “Questo uomo infallibile che non tollera osservazioni da chicchessia...che parla sempre del popolo e non lo conosce”. Generale e le “Memorie” rivedute, eliminando o minimizzando tutti gli episodi che testimoniano a favore dell’Apostolo, e perfino il primo incontro con lui. “Vita tempestosa, composta di bene e di male, come credo della maggior parte delle genti. Coscienza di aver cercato il bene sempre, per me e per i miei simili. E se ho fatto il male qualche volta, certo lo feci involontariamente…”. Ed io ti vedo Don Chisciotte, avventuriero dei deboli e dei vinti, eroe salgariano al servizio della giustizia e dell’umanità. Ti vedo, indossi sempre la camicia rossa, e i pantaloni sono quelli che ti sei cucito da te, col guardamano e il grosso ago che i marinai usano per le vele. Ma non hanno i bottoni perché non sai fare gli occhielli, e al loro posto c’è una fettuccia. Non ti lamenti più di non vedere il mare dalla tua finestra, Francesca ha fatto livellare la roccia che ne impediva la visuale da alcuni sterratori, per il tuo compleanno. Francesca ti alza, ti cambia, ti mette in bagno, ti porta nella carrozzella e tu dalla finestra che lei ti ha regalato cerchi il mare, lo trovi, lo scruti, parole d’amore cullano una giovane donna, riecheggiano nelle notti brasiliane, ti scuoti, davanti a te foglie appuntite, arbusti ramosi, fiori bianchi, bacche nere, cespugli, mirto, erica, lentisco, olivastri...c’è vento, a sinistra della strada che scende al lavatoio, il ginepro... ed il fantasma di Anita. Ti scuoti, di nuovo, un brivido ti percorre, quante avventure! Vicende memorabili, momenti felici, attimi intensi. Alzi gli occhi verso il cielo, è scuro, grigio... piove, tanti ricordi, e quanti imprevisti! ...e pensi ...ad alta voce, pensi …poi, mesto e malinconico chiedi a Donna Francesca di condurti a letto e faticosamente cominci a scrivere:“Gli entusiasmi che scatenò il mio ritorno in Sicilia fecero impallidire, nel ricordo, quelli della Lombardia. Sembrava di essere tornati ai bei tempi della gloriosa spedizione anche perché, nelle posizioni di comando, c’erano alcuni compari di allora: Pallavicino in funzione di prefetto, Medici in quella di comandante della Guardia nazionale. Palermo era ai miei piedi e pendeva dalle mie labbra. Nessuno riusciva a capire cosa fossi venuto a fare laggiù. Il 15 luglio ci fu una parata della Guardia nazionale al Foro italico, ed io vi assistetti al posto d’onore, fra il sindaco e il prefetto. D’improvviso, alle acclamazioni che la folla mi tributava, mi alzai e risposi e l’invettiva che mossi contro Napoleone, padrone della Francia e protettore del papa provocò un’immensa ovazione: bisognava che il traditore sgombrasse Roma. Nessuno poteva più fermarmi. A Marsala, terra di felice augurio, invitai gli astanti a seguirmi e questi, che due anni prima non mi avevano seguito nemmeno a Palermo, risposero al grido di Roma o morte! Intanto, volontari affluivano da tutte le parti e sfilavano davanti alle truppe regolari che li salutavano cameratescamente. Le autorità non capivano se li dovevano considerare amici o nemici. I passanti strappavano i manifesti in cui si diceva che il governo disapprovava i miei propositi, sotto gli occhi della polizia che fingeva di non vedere. Tutti erano convinti che fosse, come nel ’60, la solita finta: la rivoluzione raccomandata dal re, che mi aiutava sotto banco fingendo di sconfessarla. Il 1 agosto, a Ficuzza, parlai ai miei tremila volontari promettendo loro fatiche, disagi, pericoli, ma per la causa del nostro Paese, raccogliendo soltanto consensi e sorrisi sulle labbra. Il 3 un proclama di Vittorio Emanuele li scoraggiava a intraprendere qualsiasi iniziativa, minacciandoli di finire sotto il rigore delle leggi. Ma nessuno si rassegnò al punto di credere che io e il re litigassimo sul serio. Ed io stesso ero il primo ad escludere che questo litigio ci fosse. Medici mi supplicò di mettermi una mano sul cuore, di pensare all’Italia, a tutto quello che si era miracolosamente fatto, e di non intraprendere la via che, secondo lui, mi avrebbe portato alla guerra civile. Altri amici accorsero a scongiurarmi. Cucchi e Turr vennero da parte del re, si precipitarono anche i deputati Calvino, Mordini e Fabrizi. Di ritorno, passando per Napoli, vi trovarono il solito La Marmora, che aveva le manette facili e li arrestò, per poi rimetterli in libertà, scusandosi, per ordine di Rattazzi. Non ci fu verso, non mi fermai. Il 20 agosto ero a Catania dopo una marcia attraverso l’isola, che rafforzò in me la convinzione che il re fosse dalla mia parte. Incontrai colonne dell’esercito regolare che mi intimarono l’alt e poi cambiarono strada per lasciarmi il passo. Quando non avevo viveri, il nemico me li dava. Erano le due del mattino quando vi entrai, ma le campane si sciolsero ugualmente e la città fu colta dal delirio. Nella rada c’erano alcune navi da guerra ma i comandanti avevano ricevuto da Torino la direttiva di agire secondo il bene del paese. L’ammiraglio Albini si consultò coi suoi subalterni e diede ordine ai suoi uomini di voltare gli occhi e i cannoni dall’altra parte. E forse, se fossi arrivato a Roma, quell’ordine avrebbe valso all’ammiraglio una promozione o una medaglia. Invece gli fu imposto di prendere su di se, con una lettera di dimissioni, la responsabilità del mancato intervento. Alle quattro del mattino del 25 agosto due piroscafi sbarcarono duemila volontari sulla costa calabra, fra Melito e capo dell’Armi, pressappoco lo stesso punto dell’altra volta. Una nave ci bombardò come allora, ma era piemontese, non borbonica. Certo, si trattava di una finta per darla a bere ai diplomatici. Incolonnai i miei uomini verso Reggio, distaccando un’avanguardia. A un tratto udimmo una scarica di fucileria. Ci fermammo sorpresi. Che succedeva? Un distaccamento di soldati regolari ci era venuto incontro,e fin qui nulla di strano: era successo anche in Sicilia. Ma avevano sparato. E quando gli gridammo che non volevamo combattere contro di loro, ch’eravamo amici, italiani, i regolari avevano ripreso a sparare. Non c’era scelta: o contrattaccarli, e sarebbe stato l’inizio di una guerra civile; o evitarli ritirandoci verso l’interno sull’Aspromonte. Scelsi senza esitare la seconda alternativa. Fu una dura deviazione. Pioveva a dirotto, i miei uomini bruscamente risvegliati a una realtà che non avevamo previsto, facili allo scoramento come lo erano stati all’entusiasmo. Non avevamo viveri, e la contrada aspra e brulla non ne offriva. Non sapevamo dove stavamo andando. Mi affidai a delle guide. La popolazione era rada e ostile, di pastori che vedevano in noi dei banditi e temevano per le loro greggi. Anche le guide, poi, risultarono nemiche. Invece di condurci direttamente alla casetta forestale dell’Aspromonte - appresi, ahimè, solo in seguito che sarebbero bastate dieci ore di marcia -, ci fecero girare intorno per quattro giorni e quattro notti. La casetta, avevano detto, era un deposito di rifornimenti. La trovammo vuota. Contai allora i miei uomini: da duemila si erano ridotti a cinquecento. Gli altri si erano sparpagliati in cerca di patate, unica risorsa di quella terra avara, e i più non tornarono. Anch’io mangiai patate mezze crude, perché non ci fu verso di appiccare il fuoco alle fascine bagnate dalla pioggia battente. Lo scontro con i soldati regolari avvenne la mattina del 29 agosto. Erano circa 3.500 bersaglieri. Li vidi da lontano. Feci arretrare i miei ai margini del bosco verso le alture, ma con l’ordine preciso di non sparare. Ero convinto che, una volta di fronte, quei soldati si sarebbero uniti a noi per marciare tutti insieme su Roma. Perciò mi misi davanti, bene in vista, la mano destra sull’elsa della sciabola, la sinistra sul fianco. I bersaglieri seguitavano ad avanzare a ventaglio. Eccoli a cinquecento metri, poi a trecento, poi a cento: ora mi vedevano benissimo, non potevano confondermi con nessun altro, ma seguitavano ad avanzare. Il momento era terribile. A un tratto risuonò uno squillo di tromba, e i bersaglieri s’inginocchiarono per aggiustare la mira delle carabine e cominciarono a sparare. Una palla mi colpì alla coscia sinistra, mi volsi ai miei per ripetere di non far fuoco. Un’altra pallottola mi raggiunse al piede destro. Ebbi una smorfia di dolore, ma feci un passo avanti in mezzo al grandinio dei proiettili. Accorse verso di me Enrico Cairoli ed io mi accasciai dicendogli che non era nulla. Mi trasportarono sotto un albero, mentre la fucileria infittiva. Ordinai allora di andar fuori al grido di Viva l’Italia! Ma il grido non fece nessun effetto. I bersaglieri lo sommersero sotto i loro spari, e allora anche i miei uomini spararono. Durò una decina di minuti, e bastarono per fare dodici morti- cinque dei nostri e sette regolari- e trentaquattro feriti: quattordici regolari e venti di noi. Poi tutti si trovarono intorno all’albero dove giacevo, con un mezzo toscano in bocca. Tre dottori della mia colonna - Ripari, Basile e Albanese- stavano esaminando le mie ferite. I regolari offrivano sigarette ai miei che non ne avevano, i quali si sdebitavano offrendo ai regolari i fiammiferi accesi. Ci si riconobbe fra paesani, i dialetti s’incrociarono. Finalmente giunse un regio ufficiale, il tenente Rotondo che, senza scendere da cavallo, senza nemmeno fare un saluto, e soprattutto senza sentire il ridicolo delle proprie parole in quella situazione, mi intimò la resa. Gli risposi che erano da trent’anni che sapevo cosa fosse la guerra, e assai meglio di lui, e rivoltomi ai miei ufficiali lo feci disarmare. Il vincitore Rotondo si lasciò strappare di mano la sciabola, e chissà quali altre brutte figure avrebbe fatto, se in quel momento non fosse sopraggiunto il colonnello Pallavicini. Questi scese da cavallo, si tolse il berretto, si chinò verso di me, e mi intimò anch’egli la resa, ma all’orecchio. Soddisfatto annuì. La discesa su Scilla, nella notte tra il 29 e il 30, fu penosa. Steso su una barella rudimentale, coperto da diversi giacconi, fumavo un sigaro dietro l’altro, mentre un ufficiale mi faceva gocciolare acqua fresca sulle ferite. Il corteo era preceduto da alcuni pirofori che illuminavano il sentiero con torce accese. A mezzanotte si fece sosta nella capanna del pastore Vincenzo, che mi aveva aiutato già nel ’60. Bevvi brodo di capra e riposai per qualche ora. All’alba del trenta ci si rimise in cammino. Il tempo si era rimesso al bello, e nel cielo libero da nuvole il sole ardeva. Per ripararmi, i portatori composero sulla mia testa un ombrello con rami d’alloro. Sembrava la processione del Corpus Domini. Chiesi a Pallavicini di essere imbarcato su una nave inglese e il colonnello mi rispose con un evasivo Si vedrà..ma quando fummo vicini al mare, vidi che ad aspettarmi c’era la pirofregata piemontese Duca di Genova..mi sdegnai parecchio. Pallavicini si strinse nelle spalle. Obbediva agli ordini, rispose, non sapeva che farci. Mentre mi traghettavano a bordo scorsi, ritto sul cassero di una nave vicina, con la mano destra sull’elsa della spada in una posa da vittorioso, il comandante di quella gloriosa spedizione: il generale Cialdini. Costui non mi salutò, non si tolse nemmeno la sigaretta di bocca. Decisamente, i generali dell’esercito piemontese vincevano di rado...ma in compenso vincevano male”.Sei stanco ormai, chiudi gli occhi, la testa affonda sul guanciale, è sera, una brezza improvvisa spalanca la finestra ed è un volteggiare di fogli...quante parole, quante memorie…1862, li stregasti col tuo fascino, il governo li confuse con le sue ambiguità, la parte rivoluzionaria li sedusse con le sue audacie: gli italiani ti sono grati comunque Generale Giuseppe Garibaldi.
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