di Domenico Latino
La mia avventura insieme al barone Amedeo Guillet ha
inizio alcuni giorni addietro: una calda mattina di giugno, dopo una lunga
attesa, il corriere mi consegna il pacchetto che aspettavo con ansia. Con
sollievo rientro a casa e in cucina, godendo del fresco venticello del
ventilatore, con la vista ancora alterata dal sole, comincio a scartare con
avidità il mio fagotto bianco carico di timbri e segni che confermano la
distanza percorsa per arrivare a destinazione. È incredibile quante sensazioni
possa provocare in me un pacco da scartocciare! Spesso penso che io sia più
attirato dal fatto che non dall’ effetto e in realtà ho sempre preferito la
gioia delle sorprese alla consistenza dei regali. Una foto in una vecchia
tonalità richiama la mia attenzione e pian piano prendono forma ai miei occhi i
contorni di un elegante soldato e del suo bianco destriero: è la copertina di
un voluminoso libro; finalmente ho fra le mani la biografia che tanto mi
incuriosiva: Sebastian O’ Kelly – Amedeo. Vita, avventure e amori di un eroe
italiano in Africa Orientale. Al riparo dalla calura estiva e stimolato
dall’argomento mi stendo sul mio comodo divano e mi tuffo nella lettura di un
personaggio, ahimè, poco conosciuto, ritrovandomi ben presto proiettato
indietro nel tempo, in un mondo oramai scomparso ma non per questo meno
affascinante: il mondo coloniale europeo in Africa, quando la nazione italiana
era ancora in fase di formazione, il mondo delle masse contadine di cui il
cavallo fu principale fonte di forza economica e militare, dell’eclissi
dell’aristocrazia come propulsore della politica e classe di potere. Leggo del fascino esotico dell’Africa, dei mantelli dei
cavalieri, dei ricevimenti di gala e del coraggio di uomini in arme che hanno
rinunciato alla loro giovinezza per combattere le guerre italiane del ventesimo
secolo.
Dicembre 1941. Hodoeida, Yemen. Il sole sopra la testa
e le strade roventi mettevano a tacere le grida dei mercanti e gli scricchiolii
dei carretti. Alcune donne della città raccoglievano gli avanzi del pasto della
sera precedente e si incamminavano attraverso il groviglio di vicoli
maleodoranti, fino alla piazzetta di fronte la prigione. All’interno della
cella, più bassa del livello della strada, una debole luce penetrava nel buio e
i prigionieri sapevano che, in quelle ore del primo pomeriggio, sarebbe
arrivato l’unico pasto della giornata. Croste di pane, pezzi di pesce e frutta
sarebbero piovuti giù all’improvviso dalle sbarre in alto. Alcune donne che
offrivano il cibo erano mogli o parenti, altre semplicemente mostravano
compassione per gli incarcerati rispondendo alle prescrizioni del Corano. Gli
uomini impediti dai ceppi balzavano in avanti per gettarsi sui resti,
spingendosi l’un l’altro. Uno di loro era più lento degli altri e zoppicava a
fatica verso il cibo tenendo sollevate le catene che gli legavano i piedi con
un pezzo di corda. Attorno alla caviglia destra, sotto i ceppi che cercava di
tener alzati, aveva una fasciatura sporca, incrostata di sangue rappreso e
marciume. Anche se sempre per ultimo, riusciva comunque a trovare qualcosa: una
testa di pesce, un angolo di pane frantumato o un tortino di riso ridotto in
briciole, che raccoglieva poco alla volta dal pavimento di terra battuta. Gli
altri carcerati, malviventi, contrabbandieri, furfanti, imbroglioni o innocenti
finiti lì per sbaglio, non avevano nulla a che vedere con lo straniero che
diceva di chiamarsi Ahmed Abdullah al Redai.
Vestito di panni luridi che ricadevano larghi intorno al suo corpo
scarno, sebbene parlasse con scioltezza arabo, aveva un forte accento straniero
e tutti sapevano che non era un yemenita della città di Reda, come voleva far
credere il suo nome. Il prigioniero rimaneva seduto fermo per ore in un angolo
della cella, la schiena appoggiata contro il muro di pietra; di quando in
quando, si alzava lentamente e si trascinava fino alla vasca con l’acqua
comune, portandosi alle labbra un mestolo ricavato da una vecchia scatola di
latta. C’era poi un secchio fetido per le altre necessità dei prigionieri, al
quale Ahmed si avvicinava sopprimendo la sua continua sensazione di nausea.
Ormai provava tristezza al ricordo della speranza accesasi in lui quando per la
prima volta aveva scorto le montagne dello Yemen coperte da un coperchio di
nuvole, a bordo del sambuco che lo aveva traghettato dall’Eritrea attraverso il
Mar Rosso. Sembrava fossero passati dei mesi da quando aveva rivelato
all’ufficiale più alto in grado del porto di non essere un musulmano ma un
militare italiano che aveva combattuto contro gli inglesi. Aveva comandato
ottocento cavalieri e ora, nello Yemen, cercava scampo dai suoi nemici.
L’ufficiale, un giovane elegante in tunica di seta bianca, sedeva sotto una
tettoia sulla spiaggia, su dei cuscini, sopra un tappeto steso sulla sabbia e
scrutava in silenzio la figura davanti a lui. Vestito di abiti miseri, senza
denaro né documenti di identità, sembrava uno dei mille arabi disperati
disseminati lungo la costa, che tentavano di sopravvivere in tempi difficili.
Aveva mani ruvide e callose, la faccia segnata dalle intemperie e una cicatrice
lungo la guancia destra e, nonostante gli occhi grigio-azzurri fossero
splendenti, le sclere erano ingiallite dalla malaria. Ma c’era qualcosa in lui
che tratteneva il giovane ufficiale dal congedarlo. Sarebbe potuto rimanere in
quel sotterraneo per anni senza che il mondo di fuori se ne accorgesse. Adesso,
tutti gli sforzi fatti per fuggire agli inglesi sembravano inutili; se almeno
si fosse arreso con gli altri, il nemico avrebbe rispettato il suo grado e lo
avrebbe tenuto in vita. E invece la fortuna lo aveva abbandonato e lui stava
diventando ogni giorno più debole. La ferita da pallottola alla caviglia gli
aveva fatto gonfiare le ghiandole della coscia e la cancrena non avrebbe
tardato a formarsi. Durante le lunghe e monotone ore nella cella soffocante, la
mente del prigioniero ritornava agli anni precedenti la guerra, che avevano già
l’inconsistenza dei sogni. I ricevimenti e i balli a Roma e a Torino, a
Budapest e a Berlino si fondevano l’un l’altro in un ricordo confuso di sete
rilucenti e di distinte divise. Gli lampeggiavano nella mente, quasi a volerlo
beffeggiare, facce di amici quasi sfumate nei ricordi, che parlavano a voce
alta e ridevano : ufficiali dell’esercito di buona famiglia come lui, donne
dell’alta società e alcune tra le nuove stelle del cinema italiano. In quelle
occasioni era stato festeggiato come uno dei campioni dello sport italiano, la
grande speranza della squadra di equitazione alle Olimpiadi di Berlino del
1936. La mente febbricitante del prigioniero ricominciò a vagare e si sentì
frastornato e disgustato come lo era stato una volta a Budapest, portato in
trionfo tra fiumi di champagne e acclamato come il “conquistatore
dell’Abissinia”. Poi tutt’a un tratto era in piedi davanti alla piccola figura del
re d’Italia, in uno dei ricevimenti reali per giovani eletti a Villa Savoia, a
Roma. Vittorio Emanuele III, lo conosceva fin dall’infanzia. Il momento
successivo era a Tripoli dove passeggiava nei profumati giardini del Castello
al braccio di Italo Balbo, governatore della Libia, preoccupato che la nuova
alleanza del duce con la Germania nazista li avrebbe portati tutti alla
rovina...
Quando pensava, come accadeva di frequente, alle due donne
che lo amavano, si risvegliavano in lui emozioni più forti. Pensava a Kadija
con un misto di colpa e di desiderio. Chiuse gli occhi e la rivide, insicura
all’entrata della sua tenda, con la lampada a petrolio che metteva in risalto
le sue forme e faceva apparire ombre nero pece tra le pieghe dello sciamma
bianco che le avvolgeva la testa e le spalle contro il freddo della notte. Quel
giorno aveva seppellito molti uomini, compresi alcuni di quelli che gli erano
più vicini. Con gli occhi arrossati aveva guardato Kadija avvicinarsi al suo
letto e, senza dire nulla, togliergli gli stivali che usava per cavalcare. In
quel momento di tenerezza, in cui la felicità e la vita stessa sembrano così
fugaci, l’aveva presa tra le braccia. Kadija diceva che era il suo capo, e in
quei giorni era stato davvero un onnipotente comandante, uno dei più
incoraggianti ufficiali del duca d’Aosta, viceré dell’Africa Orientale
Italiana. Dopo che gli inglesi avevano sconfitto gli italiani distruggendo
l’impero africano del duce, tuttavia, non aveva avuto più nulla da offrirle,
eppure lei era rimasta al suo fianco. Era diventato un semplice shifta, un
bandito che continuava inspiegabilmente a combattere con un manipolo di ascari
quando il resto dell’esercito italiano si era già arreso. Kadija non si
allontanava mai dal suo fianco, sparando ai camion inglesi, che si
arrampicavano dondolando sulle strade montuose dell’Eritrea, con la sua vecchia
carabina austroungarica. “Ay zosh! Ay zosh! Su! Su!” urlava in tigrino mentre
il gruppo lacero si avvicinava per saccheggiare e uccidere. Stesa al suo fianco
sopra il tappetino di paglia del loro tucul, gli aveva assicurato che
combattendo con gli uomini portava loro fortuna. Lui l’aveva guardata
addormentarsi, coprendole le spalle nude con una vecchia coperta e poi
baciandole le ingarbugliate trecce nelle quali raccoglieva i capelli. Nel buio
della cella gli occhi del prigioniero si riempirono di lacrime. Provava a
convincersi che aveva sempre cercato di essere sincero: Kadija sapeva fin
dall’inizio che un giorno si sarebbero separati e che c’era qualcun altro a
casa ad aspettarlo, una donna che lui amava e alla quale aveva chiesto di
diventare sua moglie. Lei abbassava la testa e diceva che capiva, ma in cuor
suo continuava a sperare che non sarebbe mai partito. Il prigioniero ignorava
quali sentimenti provasse ora Beatrice Gandolfo nei suoi confronti, non sapeva
se stesse ancora aspettando il suo ritorno, se avesse trovato qualcun altro o
se si fosse addirittura sposata.Il suo nome non era tra quelli dei caduti in
battaglia, e non compariva nemmeno nelle liste degli ufficiali italiani
rinchiusi nei campi di prigionia in India, Kenya e Sud Africa, che gli inglesi
consegnavano alla Croce rossa. Era semplicemente “disperso” , nel vuoto creato
dal crollo dell’Africa Orientale Italiana. Si ripeteva che qualsiasi cosa Beatrice,
Bice come la chiamava lui, avesse deciso, non l’avrebbe biasimata. Non avrebbe
potuto: si conoscevano da tutta la vita e il legame tra di loro, che erano
cugini, oltre che innamorati, era troppo stretto per poter essere spezzato.
Quando era ospite dei Gandolfo a Napoli o quando andavano insieme a fare il
bagno nella loro residenza estiva di Vietri, le sorelle maggiori di Bice
avevano sempre avuto per Amedeo molte più attenzioni di quante ne avesse avute
lei. Erano loro a voler conoscere l’ultimo scandaloso pettegolezzo su Edda
Ciano, la figlia dai capelli biondo platino del duce, o che abiti portassero le
principesse reali o ancora se uscisse davvero con la stella del cinema Elsa
Merlini, come scrivevano i giornali. Ancora adolescente, Bice lo osservava
assorta con i suoi occhi castano scuro, sorrideva leggermente ma non diceva
quasi nulla. Si ricordò il giorno in cui capì che si stava innamorando della
sua giovane cugina, mentre navigavano lungo la Costiera amalfitana a bordo di
una piccola barca, e inizialmente il pensiero lo aveva spaventato. Bice aveva
nuotato fino alla parete rocciosa a strapiombo della costa e si era arrampicata
sopra un’alta sporgenza, ignorando i suoi avvertimenti. Lo aveva guardato, giù
nella barca, aveva sorriso e poi si era tuffata in mare. I lunghi capelli
biondo rossicci, fluttuavano sott’acqua verso di lui. Se il destino fosse stato
diverso avrebbero avuto una vita in comune e dei figli, e sarebbero invecchiati
insieme. Ciò che più rattristava Amedeo era il pensiero che Bice non avrebbe
mai saputo cosa gli era successo. Sarebbe morto qui, seppellito e presto
dimenticato come il pazzo Ahmed Abdullah al Redai, senza lasciare alcuna
traccia nel mondo dell’uomo che era stato.
Il giovane e animoso Tenente Amedeo Guillet nasce a Piacenza nel
1909. Di nobile stirpe
piemontese-campana, suo nonno, ufficiale sabaudo arrivato al Sud per fare
l’Unità, aveva infatti sposato la figlia di un cittadino illustre di Capua. Ufficiale
di cavalleria del Regio Esercito, fu campione di equitazione - superò le
selezioni per la squadra nazionale che gareggiò alle Olimpiadi di Berlino
-oltre che soldato coraggioso. Veterano della conquista dell’Etiopia nel 1936 e
del conflitto civile spagnolo, allo scoppio della Seconda guerra mondiale si
trovava in Africa Orientale Italiana, dove il viceré, il Duca d’Aosta, gli
aveva affidato il comando del Gruppo Bande Amhara a cavallo, un reparto
indigeno formato da eritrei, etiopi e yemeniti a lui fedelissimi. L’azione di
Amedeo lasciò il segno: nella battaglia di Cherù lanciò una travolgente carica
che per poco non gli permise di catturare il quartier generale della Gazelle
Force, l’avanguardia nemica. Fu un’azione memorabile, che ritardò di un giorno
l’avanzata inglese permettendo alle nostre forze di riorganizzarsi, e fece di
lui una figura leggendaria. Tagliato fuori dalla madrepatria, mal equipaggiato
e privo di rinforzi, l’esercito italiano combatté con coraggio disperato contro
gli inglesi invasori: nel decisivo scontro di Cheren i generali Carnimeo e Lorenzini
furono sopraffatti dopo due mesi di resistenza accanita. Guillet, però, non si
arrese. Conosciuto dai suoi uomini come cummandar-as-sheitan, il “comandante
diavolo”, in sella al suo splendido cavallo Sandor intraprese una vera e
propria guerra privata contro gli inglesi. Lo accompagnava la bellissima
Kadija, la giovane figlia di un capovillaggio etiope che, innamoratasi di lui,
decise di condividere i pericoli e l e paure di una vita impossibile. Neppure
quando il Gruppo Bande cessò la sua guerra Amedeo considerò l’ipotesi di cedere
le armi. Abbandonata la divisa, trasformatosi nello yemenita Ahmed Abdullah al
Redai, sopravvisse facendo l’acquaiolo e riuscì dopo mille peripezie a
raggiungere lo Yemen, dove dopo un breve periodo di carcerazione, si improvvisò
maniscalco e veterinario per poi diventare apprezzato consigliere dell’Imam
regnante. Di lì nel settembre 1943 riuscì a raggiungere l’Italia da clandestino
per battersi contro i tedeschi nell’ultimo anno e mezzo di guerra. La nobildonna napoletana Beatrice Gandolfo
alla fine del conflitto sarebbe diventata la compagna della sua vita. Fedele
al giuramento che lo legava al re, abbandonò la divisa dopo il referendum del 2
giugno e intraprese la carriera diplomatica che lo portò in diversi paesi arabi
tra cui, in qualità di ambasciatore, la
Giordania, il Marocco e l’India. Ritiratosi nel 1975 in Irlanda, ha continuato
a dedicarsi ai cavalli, alla musica e alla pittura.
Tuttora i giornali
d’oltremanica dedicano ammirati articoli ad Amedeo Guillet, un italiano che
smentisce il luogo comune - ben diffuso tra i Britannici - secondo il quale gli
Italiani sarebbero “useless in combat’, inetti in battaglia.
Una delle virtù di
Amedeo Guillet fu la capacità dell’amministratore, dell’ufficiale coloniale, di riconoscere
l’onore dell’indigeno, cioè la sua identità e dignità. Cosa difficile nella
situazione coloniale che era
situazione di ineguaglianza di diritti. Del resto, una delle ragioni del
fallimento della colonizzazione - celebrata come the white man burden –
come il fardello civilizzatore che
l’uomo bianco si era accollato assumendo la responsabilità delle colonie, è
appunto stata l’incapacità nel riconoscere l’onore dell’altro. Quello che militari come Guillet avevano era un senso così alto dell’onore di
sé, della nazione che rappresentavano, da saper istintivamente riconoscere
l’onore altrui. La storia di
Guillet rimane soprattutto un esempio di coraggio, correttezza e fedeltà ai
propri principi, quale non è dato spesso trovare nella nostra storia recente. Guillet
fu soldato come un Don Chisciotte più realista e fortunato. Credeva in una
missione civilizzatrice dell’Italia da compiere nel rispetto delle tradizioni
altrui. Sui gagliardetti del suo Gruppo Bande, costituito attingendo a svariate
etnie, non mise i simboli del fascismo ma, insieme, la croce cristiana e la
mezzaluna islamica, oltre al suo motto, “Semper Ulterius”, allo stemma sabaudo
e a quattro code di cavallo. Gli eritrei non lo ricordano come un invasore ma
come un eroe delle loro lotte per l’indipendenza, anzi per essi egli
rappresenta il primo eroe dell’indipendenza eritrea, al punto che lo stesso
presidente lo ha ospitato con onori degni di un Capo di Stato.
“Il 19 gennaio, la IV e la V Divisioni Indiane
attraversarono il confine a nord del Nilo Azzurro e incontrarono scarsa
resistenza, anche se a un certo punto vennero caricate da un Ufficiale italiano
su un cavallo bianco, alla testa di una banda di cavalieri Amhara lanciata alla
disperata contro le loro mitragliatrici.”
(John Keegan, La Seconda Guerra
Mondiale).
“A Brindisi,
incontrò a una mensa alleata due degli ufficiali britannici che gli avevano
dato la caccia in Eritrea. “Che fortuna non avervi incontrato allora!” dissero
cavallerescamente alzando il bicchiere alla sua salute. “Che fortuna per voi,
forse. Che disgrazia per me, di certo!” rispose con amarezza il Tenente
Colonnello Guillet.”
(Indro Montanelli, Gli incontri).
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